Medicine e bugie. Un libro-denuncia di Chiarelettere sulle truffe mediche

Più medicine, più salute. Siamo ossessionati dal benessere e abbiamo talmente paura delle malattie (anche quelle inventate) che siamo disposti a ingerire qualsiasi pillola, e a credere a truffatori e guaritori senza scrupoli.

Bombardati da pubblicità ingannevoli, compriamo integratori di ogni specie senza sapere che per la maggior parte non servono a nulla, siamo disposti a sottoporci a esami più volte all’anno con costi elevatissimi anche quando non ce n’è bisogno, ci affidiamo a qualsiasi prodotto che sia naturale e biologico sicuri della sua efficacia, anche quando non provata scientificamente, e siamo in balia della prima novità farmaceutica che ci prometta di farci diventare più belli e più giovani. Poveri ingenui.

Ecco un libro che ci può aiutare. Di Grazia, medico di professione, combatte da anni contro truffe e ciarlatani. Riporta casi di farmaci inutili o addirittura dannosi spacciati per miracolosi, dal nuovo prodotto contro l’Alzheimer allo scandalo dell’Oscillococcinum, o di certi psicofarmaci o antidolorifici causa di morte e disturbi gravissimi. Tutto provato e documentato.

Essere informati è l’unica cura che può salvarci da facili illusioni e aiutarci a essere cittadini e pazienti più sani e consapevoli.

L’AUTORE
Salvo Di Grazia è un chirurgo specialista in Ginecologia e Ostetricia, medico ospedaliero e divulgatore scientifico. Appassionato di musica e internet. Scrive per diverse testate e siti, collabora con “Le Scienze” e “il Fatto Quotidiano”. Ha fondato nel 2008 e gestisce il blog MedBunker che è diventato con il tempo punto di riferimento sulla medicina e contro i ciarlatani della salute. Nel 2014 ha pubblicato il libro SALUTE E BUGIE (Chiarelettere) sulle terapie truffaldine.
http://medbunker.blogspot.it

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un estratto del libro.

La truffa degli integratori alimentari
Fin da piccoli ci hanno convinto che, per stare meglio (ma se si sta già bene, perché dovremmo stare meglio?), è necessario (quasi obbligatorio) assumere vitamine, pillole e bustine. Un integratore, per legge, non può vantare effetti terapeutici (ovvero non può sostenere di «curare» o «guarire» da una malattia) e per questo ha una procedura di approvazione molto più semplice rispetto a quella dei farmaci standard. Questi ultimi, per essere venduti, devono superare molti test e autorizzazioni. Devono dimostrare di essere sicuri ed efficaci, bisogna presentare degli studi che ne attestino gli effetti e che vengono passati al vaglio degli enti preposti (in Italia l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, in Europa l’Ema, European Medicines Agency, negli Stati Uniti la Fda, Food and Drug Administration) e solo dopo diverso tempo possono essere messi in commercio. Gli integratori non sono sottoposti a un iter così rigoroso: basta dimostrare che siano innocui. Quando li compriamo, quindi, sappiamo semplicemente che non fanno male, ma non abbiamo alcuna certezza della loro efficacia: la maggioranza degli integratori in vendita non serve a niente. Ma allora perché hanno tanto successo? Per il solito motivo: siamo alla continua ricerca di un rimedio per i nostri problemi, veri o ipotetici che siano. Prendiamo per esempio gli antiossidanti. Non mi dite di non aver mai sentito parlare dei loro benefici, ne discutono ovunque in maniera quasi martellante. Esperti e medici sono d’accordo: per sconfiggere i radicali liberi (che tra le altre cose ci fanno invecchiare e ammalare) gli antiossidanti sono un’autentica panacea. Sono contenuti in molti alimenti (economici, come la frutta e la verdura) ma possiamo anche assumerli in pratiche capsule (acquistandole a caro prezzo, s’intende). Ma i prodotti della terra non esercitano sui consumatori lo stesso fascino di una pillola colorata, sono troppo semplici, ordinari, neanche ci sembra credibile che possano contenere sostanze capaci di contrastare l’invecchiamento e la malattia. Meglio assumere una piccola compressa che si manda giù con un sorso d’acqua, che magari contiene ingredienti dai nomi altisonanti e che evocano effetti portentosi. Noi non vogliamo stare meglio, vogliamo il miracolo. Non si spiegherebbe altrimenti il successo immotivato degli innumerevoli prodotti inutili venduti come fondamentali per la salute, e che troviamo sia in farmacia sia al supermercato. Si stima che il mercato statunitense degli integratori ammonti a oltre 30 milioni di dollari, in Italia è ovviamente più contenuto ma solo perché la nostra popolazione è numericamente molto inferiore a quella americana. Il dato è sorprendente, visto che in assenza di malattie o carenze specifiche un integratore non serve a nulla: né a stare meglio né tantomeno a guarire da qualcosa che non abbiamo. Vitamine, sali minerali, sostanze e derivati vegetali rappresentano un mercato enorme che ormai anche le grandi aziende farmaceutiche si vogliono accaparrare, e non a caso le due classi di integratori più vendute sono quelle relative ai dietetici e agli stimolanti sessuali, seguite dai prodotti per palestre. In molti di questi sono addirittura contenute sostanze tossiche e proibite, come i derivati delle anfetamine. Il pericolo si scopre solo quando si effettuano controlli mirati sul prodotto, cosa che, come abbiamo detto, non avviene prima del rilascio sul mercato. Una recente indagine giornalistica del «New York Times» ha dimostrato che molti integratori presenti sul mercato americano contenevano componenti non permesse, e peraltro non elencate tra gli ingredienti, che hanno causato gravi effetti collaterali, e che in tre quarti degli integratori a base di olio di pesce (venduti per i loro presunti, ma per niente accertati, effetti positivi sul sistema nervoso e sull’intelligenza) non era contenuto il quantitativo di omega-3 (la molecola che avrebbe l’effetto positivo) dichiarato in etichetta. Il boom dell’olio di pesce è legato anche alla prevenzione delle malattie cardiache ma, ancora una volta, non sembra esserci alcuna evidenza dei suoi effetti benefici. Non è così scontato che l’assunzione o l’integrazione (non necessaria) di una vitamina possa essere utile alla salute, anzi. Si è visto, per esempio, che l’assunzione di calcio, alla quale spesso si ricorre per prevenire i problemi ossei, non è soltanto inutile perché meno efficace di altre terapie, ma può essere anche dannosa, visto che sembra aumentare di circa il 20 per cento il rischio di problemi cardiovascolari (ictus, infarti). Lo stesso discorso si può fare per gli antiossidanti. Quelli contenuti negli alimenti sono utili, contrastano la degenerazione delle cellule e riescono persino a prevenire alcune malattie, ma quelli assunti come «medicina» non sembrano avere gli stessi effetti, anzi, alcuni studi hanno evidenziato pericolose controindicazioni: nelle cavie, per esempio, l’assunzione di antiossidanti ha causato il peggioramento del melanoma, un tumore cutaneo. Alcuni medici prescrivono integratori a base di glucosamina e condroitina, due sostanze ritenute benefiche per certe malattie osteoarticolari come l’artrite o per dolori alle ossa e altri disturbi delle articolazioni. Nonostante qualche evidenza positiva, non mancano certo prove della loro assoluta inutilità, come quelle notate nei confronti dei dolori dell’artrite: mentre un antinfiammatorio li riduceva, gli integratori di glucosamina o condroitina sortivano quasi lo stesso effetto di un placebo (ovvero una sostanza neutra, priva di qualsiasi effetto). Altri studi hanno rilevato un miglioramento lieve o moderato. Persino i noti fermenti lattici, se presi a sproposito, possono essere inutili, quando non dannosi. Si tratta infatti di batteri di vario tipo (si chiamano «probiotici») che vivono nel nostro intestino aiutandone le funzioni e che possono avere un ruolo positivo anche dal punto di vista immunitario. Sono contenuti in molti alimenti (come lo yogurt o i formaggi) e spesso sono prescritti per prevenire o curare la diarrea (come quella causata dall’uso di antibiotici). Alcuni studiosi hanno fatto notare che i benefici vantati dai probiotici presenti in alcuni alimenti sono annullati dall’eccessivo contenuto in zucchero degli stessi, che anzi finirebbe per renderli nocivi. Inoltre uno studio pubblicato sul «Lancet» ha constatato che la diarrea da antibiotici ha avuto gli stessi identici (piccoli) benefici sia dai probiotici sia da un placebo (un flaconcino di acqua zuccherata), negli individui oltre i sessantacinque anni. Questi esempi possono farci capire che se alcune vitamine o sostanze possono avere un’utilità in certe condizioni, in altre (e nella maggioranza dei casi) non servono a nulla. Pensate poi al business degli integratori in gravidanza. Alle donne in attesa viene consigliata l’integrazione con acido folico perché in grado di prevenire un grave problema alla colonna vertebrale del feto, anzi, dovrebbe essere assunto già prima del concepimento e fino all’undicesima settimana di gestazione, dopodiché la sua efficacia è trascurabile, anche perché lo assumiamo già normalmente con la nostra alimentazione. Utile può essere anche l’integrazione di vitamina D. Tutte le altre vitamine e sostanze che servono in gravidanza sono assunte con la normale dieta quotidiana che, ovviamente, deve essere ben bilanciata e varia. Eppure sono prescritti alle donne incinte svariati multivitaminici, prodotti che integrano decine di vitamine e sali minerali, componenti essenziali per la vita ma che, in una donna in salute e che si alimenta bene, non hanno necessità di integrazione o maggiore consumo. Da non sottovalutare il costo di questi prodotti, in genere elevato. Un affare per chi li produce. Eppure gli integratori rappresentano un richiamo irresistibile per il consumatore e per procurarseli non serve neanche una prescrizione, esattamente come se acquistassimo un gioco, un panino o un frutto: semplice e veloce. E sono spinti da un marketing aggressivo proprio perché prevedono un investimento molto basso a fronte di un guadagno (per il produttore) sicuramente interessante che punta sull’illusione del benessere di tutti noi. Tra i prodotti che hanno un inspiegabile successo di mercato ci sono anche le acque oligominerali (che contengono pochi sali minerali, come il magnesio, il sodio, il potassio e altre componenti normalmente presenti nelle acque potabili e fondamentali per la nostra salute). Ora, oltre al fatto che i sali minerali sono utili e non dannosi (e quindi non c’è alcun motivo per preferire un’acqua con pochi sali minerali rispetto a quella normale di rubinetto), spesso chi assume gli integratori lo fa con l’acqua oligominerale, sciogliendovi le bustine solubili o bevendone un sorso per mandar giù una pillola. Avviene dunque un fenomeno curioso: compriamo un integratore che ci fornisca sali minerali, evidentemente considerandoli utili, e lo assumiamo con un’acqua povera di sali minerali. Non siamo proprio strani noi consumatori?

PD, la follia delIa scissione. INTERVISTA A GIORGIO TONINI

La scissione del PD si è compiuta, dopo giorni di follia politica. Sconcertante, agli occhi dell’opinione pubblica, il comportamento dei protagonisti di questa vicenda. Adesso sorgeranno i gruppi parlamentari degli scissionisti. “Movimento Democratico e Progressista”, questo il nome del nuovo gruppo. Cerchiamo di capire, in questa intervista, con Giorgio Tonini (PD), Presidente della Commissione Bilancio al Senato, quali saranno le conseguenze della scissione.

Senatore Tonini, come sta vivendo, personalmente, questa scissione?

 Diciamo che abbiamo conosciuto momenti migliori. Un gruppo di dirigenti storici della sinistra italiana, pur di abbattere il segretario in carica, peraltro alla prova di un congresso tutt’altro che scontato, non esita a dare un colpo al partito con l’obiettivo dichiarato di fargli perdere il primato elettorale nel paese. Un obiettivo folle e irresponsabile, non solo nei riguardi del Pd, ma anche nei confronti del paese, che non mi pare disponga di un’alternativa di governo pronta. E tutto questo in uno scenario europeo e internazionale da brivido, alla vigilia di elezioni francesi che potrebbero segnare la fine dell’Unione europea, o viceversa aprire una fase di nuovo sviluppo della costruzione politica dell’Europa, dalla quale un’Italia resa nuovamente instabile dall’esito infausto del referendum costituzionale, rischia di essere esclusa.

Nel suo territorio, il Trentino, che tipo di reazioni ha registrato?

Sconcertate. Praticamente nessuno ha seguito i fuoriusciti. Semmai c’è chi, contro la scissione politica, invoca la secessione territoriale. È un altro, piccolo sintomo dei rischi di disgregazione del paese.

A rivedere il film di questi ultimi due mesi, in cui il suo partito ha dato il peggio di sé, si fa ancora fatica a comprendere le motivazioni profonde di una scissione che assomiglia sempre più ad uno psicodramma collettivo. Insomma possono le differenze programmatiche, e ve ne sono diverse, giustificare una scissione? Questo è quello che si domanda l’opinione pubblica….

Differenze programmatiche ce ne sono, come è evidente, ma anche fisiologico, in un grande partito popolare e plurale. Ma non si fa una scissione, tanto meno in un momento drammatico come quello che stiamo vivendo, per qualche divergenza programmatica. Semmai ci si presenta al congresso con una piattaforma alternativa a quella del segretario uscente e si prova a metterlo in minoranza.

Parliamo di Matteo Renzi. Dica la verità Senatore Tonini, il comportamento dell’ex-segretario non è stato proprio di uno che fosse dispiaciuto della scissione. Anzi! Il comportamento ha continuato ad essere improntato sulla supponenza, menefreghismo delle ragioni degli altri, ingordigia di rivincita…. A parte quella piccola autocritica fatta in quella intervista ad Ezio Mauro su Repubblica, non c’è stata una vera autocritica sul suo operato. Eppure ragioni per farla ve ne sono. Insomma come può una persona così essere percepita come un segretario di tutti?

Per la verità, Renzi ha fatto molto di più che sottoporsi al rito un po’ comunista dell’autocritica: si è dimesso da presidente del Consiglio e poi da segretario del partito. Detto questo, è indubbio che la dote più spiccata di Renzi non sia l’inclinazione alla mediazione e al compromesso. Ma neppure questa è una ragione sufficiente per andarsene da un partito. Del resto, il principale regista della scissione, Massimo D’Alema, può dare poche lezioni al riguardo, diciamo… Siamo seri. La ragione della decisione di uscire sta in un radicale dissenso sulla natura del Pd. Per D’Alema e Bersani doveva essere l’ennesima metamorfosi del Pci, a cominciare dalla forma-partito, basata sulla mediazione al centro piuttosto che sulla competizione tra proposte alternative, e su un gruppo dirigente sostanzialmente inamovibile, che si rinnova lentamente e quasi solo per cooptazione. Renzi, pur con tutti i suoi limiti, ha avuto il merito storico di prendere sul serio il modello nuovo di partito pensato e voluto da Veltroni e di metterlo in atto, di farlo vivere non solo negli statuti, ma nella prassi quotidiana. Un modello aperto e competitivo, fondato sui due principi della vocazione maggioritaria e della contendibilità di tutte le cariche. Questo modello si è rivelato insopportabile per D’Alema e soci, al punto di tentare, con la scissione, di farlo saltare. Per fortuna non sembra che le dimensioni della rottura siano letali per il Pd. Anche se certamente sarebbe stato meglio poterne fare a meno.

E poi questa voglia smisurata, da parte di Renzi, di andare presto alle elezioni: non la vede come un suicidio per il PD? E la decisione dalla Direzione di concludere l’iter congressuale il 30 aprile non suona come una sconfitta del segretario dimissionario e la vittoria del partito della conclusione della legislatura a scadenza naturale?

Trovo la disputa sulla data delle elezioni, sei mesi prima o sei mesi dopo, malinconicamente comica. Renzi avrebbe avuto torto a pretendere di andare alle elezioni saltando il passaggio della sua rilegittimazione democratica attraverso il congresso. Ma ora il congresso c’è e si terrà prima del voto. A questo punto è la fuoriuscita dei dalemiani (e non le presunte smanie di rivincita di Renzi), che potrebbe portarci alle elezioni subito. A prescindere dai tempi del congresso del Pd. Da presidente della commissione Bilancio del Senato, mi sentirei di sconsigliare al governo di entrare nella sessione di bilancio con la sola certezza che i fuoriusciti dovranno utilizzarla per distinguersi tutti i giorni dal Pd, pena la loro irrilevanza politica e la loro scomparsa dai media. Ho già visto questo film: tra il 2006 e il 2008, protagonisti i gruppi e gruppetti che assediavano il Pd e il governo Prodi da sinistra e dal centro. Il finale obbligato furono le elezioni anticipate.

Parliamo dell’ex minoranza PD. Anche qui errori ve ne sono stati, dove, secondo lei, hanno sbagliato?

In particolare, direi, nel comportamento parlamentare. Non si contano infatti le occasioni nelle quali la minoranza non si è limitata a criticare le scelte della maggioranza del partito e del governo, come è suo diritto indiscutibile in un partito democratico. Ma si è dissociata nel voto, talvolta perfino in quello di fiducia, nelle aule parlamentari. Questo comportamento, tanto più se ripetuto, è strutturalmente incompatibile con l’appartenenza ad un partito. È già, di per sé, un comportamento scissionistico. Questo la minoranza lo sa e sa anche che la politica ha le sue leggi, diverse da quelle della fisica o della chimica, ma non meno stringenti. Una di queste leggi è la complementarietà, in un partito complesso e composito, del pluralismo della rappresentanza e della disciplina nel voto. Se si viola sistematicamente la disciplina, si mette a repentaglio la sostenibilità del pluralismo e si pongono quindi le basi della scissione. Questa regola non conosce eccezioni, nella storia dei partiti politici, e averla sottovalutata, da parte della minoranza, è stato un grave errore di superficialità.

Loro dicono: noi, con la nostra scissione, salviamo il centrosinistra. E’ così?

Il magnifico paradosso delle frequenti scissioni a sinistra è che vengono consumate sempre in nome dell’unità: un mito tanto celebrato sul piano retorico, quanto smentito su quello pratico. Ma la vera o presunta, diciamo tentata, scissione del Pd, in nome dell’Ulivo è una novità fantastica. L’Ulivo è sempre stato una coalizione che tendeva a farsi partito, frenata dall’istinto di conservazione dei partiti che avevano dato vita alla coalizione. In questo senso, pur con tutti i suoi limiti, il Pd è l’Ulivo realizzato: scindere il Pd in nome dell’Ulivo è quindi un nonsenso. Sarebbe come divorziare per tornare fidanzati.

Si potrà ricomporre la scissione? Su che basi potrà rinascere il centrosinistra?

Per me la domanda non ha senso. Il Pd è il centrosinistra che si fa partito. Un partito a vocazione maggioritaria, cioè un partito aperto e inclusivo e che non si limita a presidiare una nicchia più o meno grande di consenso, ma cerca di conquistare il “mainstream” del paese. Anche per questo la coincidenza nella stessa persona della funzione di segretario del partito con quella di candidato premier è un principio costitutivo del Pd. Volerlo rimuovere, come ora dice di voler fare Orlando, è proporsi di snaturare il Pd, per tornare all’idea di partito che era propria della Prima Repubblica. Questo non significa che il Pd non possa o non debba fare alleanze con formazioni minori alla sua sinistra o alla sua destra. Ma queste scelte tattiche, spesso imposte dal realismo dei numeri, non hanno nulla a che vedere con la natura del Pd, se non in quanto esprimono la sua vocazione a conquistare nuovi consensi al riformismo.

Ora inizierà il percorso congressuale. Ho la sensazione che non sarà facile coinvolgere il “popolo delle primarie”… Lei che ne pensa?

La partenza è certamente in salita: dopo una sconfitta strategica e una (per quanto ridotta) scissione, con alle viste un confronto elettorale che con assoluta probabilità non produrrà alcun vincitore, non è facile suscitare entusiasmo. Molto dipenderà dalla capacità di Renzi di rilanciare un progetto riformista per il paese: un progetto che prenda le mosse dalla batosta referendaria, assumendo fino in fondo il carico di inquietudine, di insoddisfazione, di sofferenza e di rabbia che quel voto ci consegna, ma non per cavalcarlo retoricamente, come fanno le molte famiglie populiste, ma per corrispondere ad esso con un di più di intelligenza, di immaginazione, di progettualità e di coraggio riformisti. La scelta di Renzi di ripartire dal Lingotto e di affidare il coordinamento del programma a un riformista a tutto tondo come Tommaso Nannicini è la partenza migliore di questa difficile impresa.

Infine una parola sul governo Gentiloni. L’Europa vuole la manovra correttiva presto, Renzi non ne vuol sapere di privatizzazioni, tasse sulla benzina, ecc. Non vedo messo bene il governo…

Nemmeno io. Ma non tanto per i presunti dissensi di Renzi, quanto per gli effetti della scissione. Ho sempre pensato e detto più volte che l’unico modo per accelerare la fine del governo Gentiloni è dunque quella della legislatura era la scissione, anche piccola, del Pd. Si chiama eterogenesi dei fini: un altro classico nella storia della sinistra.

HIT Show, la fiera italiana delle “armi comuni”. Intervista a Piergiulio Biatta

Un minore a HIT Show maneggia le pistole in esposizione

 

Si è da poco concluso “HIT SHOW” (11-13 febbraio), la manifestazione dedicata alla caccia, al tiro sportivo e alla “individual protection” che da tre anni si tiene presso la fiera di Vicenza. I promotori dell’evento hanno comunicato i numeri del successo: quasi 40mila visitatori, buyers da 14 paesi, un aumento del 17% del numero di brand, superficie espositiva ampliata sino a 37.500 metri quadri. Ma a far notizia sono state soprattutto le polemiche riguardo all’ingresso dei minori, sulle armi esposte e le attività che si svolgono in fiera. Ne parliamo, in questa intervista, con Piergiulio Biatta, presidente dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (OPAL) di Brescia.

Già prima dell’apertura del salone fieristico vi sono state diverse critiche nei confronti di HIT Show: che cosa è successo?

La settimana prima dell’inizio dell’evento, il sito ufficiale di HIT Show riportava chiaramente il divieto di ingresso ai minori di 14 anni: divieto che era esplicitato anche nel “Regolamento del visitatore” e all’atto d’acquisto online dei biglietti. Una importante novità rispetto alle due edizioni precedenti nelle quali era invece possibile l’ingresso a tutti i minori purché accompagnati da un adulto. La novità non era certo frutto del caso: si presentava, infatti, come un parziale accoglimento delle proposte fatte da numerose associazioni nazionali e vicentine, tra cui il nostro Osservatorio e la Rete italiana per il disarmo, che negli anni scorsi avevano sottoposto all’attenzione dei promotori di HIT Show e all’Amministrazione comunale di Vicenza una serie di criticità riguardo alla manifestazione fieristica: tra l’altro, questa importante novità era stata comunicata anche all’Amministrazione comunale di Vicenza. Apriti cielo! E’ bastato quell’annuncio a scatenare le proteste di alcuni politici veneti e di qualche associazione di cacciatori e di “appassionati di armi” che hanno addirittura sventagliato l’idea di ritirare il loro stand dalla fiera e diffuso messaggi invitando a disertare la fiera. Ma ancor più incredibile è stata la riposta di HIT Show: nel giro di poche ore di un sabato sera, i promotori della fiera non solo hanno fatto marcia indietro ma, come se nulla fosse successo, hanno comunicato che quel divieto era da attribuirsi ad «un equivoco dovuto ad uno spiacevole refuso». Una spiegazione patetica ed inaccettabile per chi è a conoscenza dei fatti.

Quali sono le criticità che rilevate nella fiera HIT Show?

HIT Show si distingue nel panorama dei saloni espositivi di “armi comuni” che si tengono nei paesi dell’Unione europea – e ci limitiamo a questi perché credo che nessuno sia disposto ad accettare raffronti con le fiere di armi negli Stati Uniti o nei paesi extracomunitari – per alcune caratteristiche che lo rendono un evento peculiare e anomalo. Innanzitutto è l’unica manifestazione fieristica nell’UE in cui vengono esposti tutti i tipi di “armi comuni” (per la difesa personale, per forze dell’ordine e private securities, per il tiro sportivo, per le attività venatorie, per collezionismo, repliche di armi antiche, ecc., cioè di fatto tutte le armi tranne quelle propriamente definite “da guerra”) alla quale è consentito l’accesso ai minori. Una notevole differenza rispetto, ad esempio, al maggiore salone europeo “IWA Outdoor Classic” di Norimberga dove, seppur siano esposte le stesse tipologie di armi, l’accesso è permesso solo agli operatori accreditati ed è esplicitamente vietato ai minorenni. In alcune fiere dei paesi UE è permesso l’ingresso ai minori, purché accompagnati, ma si tratta di fiere tematiche (per la caccia, per il tiro sportivo, per attività ricreative, ecc.) che non espongono tutto l’armamentario che si può trovare a HIT Show. Non solo: a HIT Show non vi è alcun esplicito divieto per gli espositori a raccogliere firme per petizioni, campagne e raccolte fondi per ogni tipo di iniziativa: e, si noti, tra gli espositori figuravano anche alcune associazioni che promuovono campagne per modificare le leggi sulla legittima difesa, per ampliare le condizioni per il porto d’armi e che incoraggiano a detenere armi per la difesa personale. Ancor di più: vi è un “espresso divieto” ai minori di maneggiare le armi esposte, ma a dover vigilare sono gli accompagnatori e non c’è alcuna sanzione per le violazioni. Succede perciò – come hanno chiaramente mostrato le foto di alcuni giornali locali e le immagini di trasmissioni televisive nazionali, che i minori imbraccino armi di ogni tipo pressoché indisturbati.

E quindi qual è la vostra opinione riguardo a HIT Show?

Tutte le attività che ho segnalato non appartengono ad una fiera di tipo espositivo e commerciale che – come affermano gli stessi promotori – ha una propensione al “business to business”, cioè agli affari tra aziende, e che intende promuovere il business match tra aziende e operatori del settore. Sono chiaramente iniziative di propaganda non solo per alcune attività venatorie o sportive tradizionali, ma soprattutto a favore di leggi e norme e, pertanto, hanno una precisa connotazione e rilevanza culturale, sociale e anche politica. Per questo – come abbiamo scritto nel comunicato che abbiamo promosso insieme a Rete Disarmo e 26 associazioni vicentine – riteniamo che «in assenza di un’approfondita riflessione culturale e, soprattutto, di una precisa regolamentazione dell’evento fieristico, HIT Show si sta rendendo protagonista di un’operazione ideologico-culturale e, stando agli ultimi sviluppi, persino politica che è in atto nel nostro paese per incentivare la diffusione delle armi». Riteniamo che questa operazione non possa essere sottaciuta, ma anzi vada biasimata, soprattutto perché è sostenuta da Italian Exhibition Group, una società per azioni che annovera tra i suoi azionisti diversi enti pubblici tra cui il Comune e la Provincia di Vicenza e la Regione Emilia-Romagna. In proposito voglio ricordare che già da mesi abbiamo inviato all’Amministrazione comunale di Vicenza, su esplicita richiesta, una serie di proposte volte a definire un’effettiva assunzione di responsabilità etica e sociale della manifestazione fieristica e per regolamentare con precisione e trasparenza le attività che si svolgono in fiera. Siamo ancora in attesa di una risposta.

Ma a HIT Show erano esposte anche armi da guerra?

Dipende cosa si intende per armi da guerra. Se ci si riferisce alle armi di tipo militare che vengono prodotte per esclusivo impiego da parte delle forze armate, credo che – a parte qualche arma da collezione o qualche replica – non fossero esposte in fiera. Se, invece, con armi da guerra intendiamo le armi con cui di fatto si fanno le guerre credo che ce ne fosse più d’una. Le faccio un esempio. La Beretta ha presentato in anteprima nazionale proprio a HIT Show la pistola semiautomatica APX. Si tratta dell’arma progettata specificamente dall’azienda bresciana per l’esercito degli Stati Uniti. Dobbiamo considerarla un’arma da guerra o una semplice “arma comune” visto che come tale sarà venduta in Italia? Come vede lo spartiacque è alquanto sottile e ambiguo e spesso non dipende solamente dalle caratteristiche dell’arma ma dal mercato di destinazione di un’arma: mercato che, tra l’altro, non si differenzia solo tra militare e civile, ma comprende un ampio e variegato mondo fatto di forze di polizia, corpi di sicurezza e di private securites, tiratori scelti, vigilantes, ecc. Che spesso non sono dei militari, ma che come abbiamo visto nella storia recente anche dei Balcani, sono prontissimi a diventarlo e soprattutto ad ingaggiare azioni di guerra.

A proposito della Beretta APX: dopo 32 anni l’azienda ha perso il contratto per la fornitura di pistole all’esercito degli Stati Uniti. Alcuni commentatori lo hanno messo in relazione con le politiche di stampo protezionistico promosse dal neo presidente Trump. Lei cosa ne pensa?

Si tratta della gara che ha reso famosa in tutto il mondo l’azienda bresciana che nel 1985, con la FS 92 parabellum denominata M9, vinse appunto il contratto per la fornitura all’esercito. Contratto che venne ripetutamente rinnovato e che ha fatto da apripista per le forniture ai Marines, alla Guardia costiera e alle forze di polizia di diverse municipalità americane. La gara stavolta presentava caratteristiche tecniche molto precise e diversi competitors per un contratto di 580 milioni di dollari che, oltre alla fornitura di pistole, comprendeva anche gli accessori e le munizioni. E’ stato vinto dalla P320 prodotta dall’azienda della svizzero-tedesca Sig Sauer. Un brutto colpo per l’azienda bresciana che – a detta del presidente Franco Gussalli Beretta – aveva comunque preventivato la possibilità di un avvicendamento se non altro per una comprensibile logica di alternanza. Considerando che la P320 sarà prodotta nello stabilimento Sig Sauer nel New Hampshire qualcuno ha appunto parlato di “effetto Trump”. Difficile crederlo, sia perché anche la Beretta ha un suo stabilimento negli Stati Uniti, sia soprattutto perché la decisione è stata presa prima dell’insediamento di Trump. Ma, se proprio vogliamo metterla in politica, penso che si dovrebbe guardare con maggior attenzione all’amministrazione Obama a cui non hanno certo fatto piacere le esternazioni del patron Ugo Gussalli Beretta contro alcune iniziative, come quelle promosse qualche anno fa dal governatore del Maryland, per introdurre maggiori controlli sulla detenzione di armi. Controlli e leggi che Obama, a fronte delle numerose stragi di civili innocenti, ha cercato con ogni mezzo di sostenere. Trovandosi a sbattere contro il muro della potente lobby delle armi. A cui si ispirano alcune delle associazioni presenti a HIT Show.

“Siamo ancora in tempo a fermare la deriva di Renzi”. Intervista a Chiara Geloni

CHIARA GELONI

CHIARA GELONI (Contrasto)

Ieri si è svolta direzione del PD. Sabato prossimo si terrà, a Roma, l’Assemblea Nazionale per la convocazione del Congresso. Come si svilupperà? Per alcuni osservatori la scissione si fa sempre più vicina. Andrà davvero così? Ne parliamo, in questa intervista, con Chiara Geloni, giornalista ed ex direttore di YouDem TV ai tempi della Segreteria PD di Pierluigi Bersani.

Chiara, la direzione non ha soddisfatto, secondo le parole di Bersani, la Sinistra PD. Francamente l’impressione,  agli occhi della gente, che la Sinistra PD sia incontentabile. Non Volevano il Congresso? 

Il congresso è previsto nel 2017 per statuto, non si tratta di volerlo o meno. È vero che i non renziani del Pd hanno detto nei mesi scorsi che accelerare verso le elezioni anticipate prima di fare il congresso, e quindi senza fare un bilancio di questi anni e presentare una nuova proposta agli italiani, sarebbe stata una forzatura inaccettabile. Però, e anche questo era stato detto da tempo, lo sarebbe altrettanto un congresso che si risolva solo in una conta per rilanciare la leadership di Renzi e gli consegni un mandato in bianco per esercitare i pieni poteri. E anche sull’impressione che tutto questo fa “agli occhi della gente” sarei più cauta nel giudicarlo.

Cosa è mancato nell’intervento di Renzi? 

Non ha preso nessun impegno circa un congresso vero che dia la possibilità di un vero confronto politico, salvo vaghe allusioni alle regole (poi sui giornali di oggi ha detto “li seppelliremo con le loro regole”, virgolettato smentito ma che faccio fatica a ritenere inventato). Ha ripetuto che chi perde dovrà rispettare chi vince, come se in un partito non fosse necessario e dovuto anche il contrario. Non ha nemmeno detto che, come prevede lo statuto in caso di congresso anticipato, si dimetterà formalmente in assemblea. Ha eluso il fatto che il Pd come partito di maggioranza relativa ha responsabilità innanzitutto verso l’Italia e verso i nostri alleati europei. Ha accennato con nonchalance al fatto che il tesseramento si chiude il 28 febbraio, cioè tra quindici giorni, e sembra non avere idea dello stato in cui è il partito sui territori. Infine ha respinto un documento della minoranza che impegnava il Pd a sostenere il governo a prescindere dagli esiti del congresso. Non ci sono molti elementi per sentirsi garantiti.

La Sinistra teme che  Renzi faccia cadere il governo prima della scadenza della legislatura. Pensi davvero che Mattarella non faccia nulla?

La mia fiducia nel presidente Mattarella è totale. Ma il presidente della repubblica non è onnipotente e la nostra è una democrazia parlamentare. Se il partito di maggioranza relativa, se la maggioranza del parlamento gli chiedono di sciogliere le camere lui deve farlo. Mattarella è il garante della costituzione e la costituzione dice questo.

Torniamo al Congresso. La Sinistra PD  Si presenta con ben tre candidature, e forse si candiderà Andrea Orlando. Vi sarà una convergenza su di lui? 

Vedremo quali saranno le candidature al momento di presentarle. Andrea Orlando ieri ha detto molte cose apprezzabili sul fatto ad esempio che non ci serve una conta e che le primarie rischiano di diventare la sagra dell’antipolitica e altre inaccettabili (come la richiesta di autocritica a chi ha votato No, evitando che il Pd venisse seppellito – davvero – dalla valanga referendaria), e comunque non ha rotto con Renzi, non gli ha votato contro e non si è candidato. Mi aspetto intelligenza e generosità da tutti gli aspiranti segretari, in ogni caso. Ma prima di tutto la minoranza Pd dovrà capire se ci sono le condizioni per partecipare a questo congresso. Poi si discuterà di chi candidare e sostenere.

Molti osservatori affermano che la scissione sia più vicina. Nel week end si svolgerà l’assemblea per indire il Congresso. Pensi che la scissione avverrà platealmente in assemblea? 

Alzarsi e uscire con le bandiere come a Livorno nel 1921 dici? Scenario affascinante, non lo nego… Specialmente per una di formazione democristiana come me sarebbe un’esperienza nuova! Scherzi a parte, si entra in una fase in cui la forma è più che mai sostanza. L’assemblea deve svolgersi regolarmente secondo le procedure statutarie: numero legale, dimissioni del segretario, elezione di un reggente e della commissione congressuale nel rispetto del pluralismo interno eccetera. Questo è il minimo. Il rispetto delle regole comuni in questo passo d’avvio del congresso darà il tono a tutto ciò che seguirà poi.

Cosa dovrebbe succedere per evitare una scissione che farà molto male al popolo della Sinistra?  C’è una persona seria che sta cercando di evitare questo: Gianni Cuperlo. Come giudichi il suo ruolo?

Condivido sempre quello che dice Cuperlo, non sempre capisco la sua strategia. Mi auguro che non solo lui, ma tanti, stiano lavorando per evitare una scissione che sarebbe la fine di un progetto al quale ho creduto e lavorato per più di vent’anni e che continuo a ritenere una proposta giusta per l’Italia. Ho letto che qualcuno dice che la sinistra Pd cerca pretesti per rompere. Io dico che da tre anni, e non solo io, stiamo cercando pretesti per restare. Nonostante minacce, insulti, umiliazioni personali, politiche e professionali. In molti purtroppo non ne hanno potuto più e hanno già lasciato il Pd. Non parlo di deputati ma di elettori, militanti, gente che non ha più preso la tessera e non ci ha più votato. Ora questa idea politica può riprendere fiato o finire. In questi cinque giorni io guarderò e giudicherò cosa faranno coloro che ieri hanno taciuto o espresso critiche alla stagione renziana e poi gli hanno votato a favore, coloro che possono fermare la deriva verso la trasformazione del Pd in partito di Renzi. Credo che in molti come me pensino con le parole di De André: anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti.

La Globalizzazione nell’era di Trump. Intervista a Monica Di Sisto.

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Vi saranno cambiamenti nella globalizzazione nell’era di Trump? Intanto mercoledì prossimo al Parlamento europeo, a Strasburgo, si discuterà del CETA (Accordo economico e commerciale globale con il Canada). Un accordo molto discusso. Di tutto questo parliamo con Monica Di Sisto, giornalista di ASKANEWS, vicepresidente dell’Associazione Fairwatch, che si occupa di commercio internazionale e di clima da oltre 10 anni. Insegna Modelli di sviluppo economico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.

Partiamo da Donald Trump. Con lui torniamo indietro di decenni su molti fronti. Anche su quello dei trattati internazionali del commercio. Infatti ha stoppato l’accordo Trans-Pacifico, poi sarà l’ora del Ttip (ma  la trattativa,  ormai, è su un binario morto) e del Nafta. Insomma siamo nell’era del protezionismo galoppante? 

Se non vogliamo essere ideologici, dobbiamo intenderci sulle parole. Gli Stati Uniti di Obama erano protezionisti: bloccano da oltre 15 anni qualsiasi negoziato nell’Organizzazione Mondiale del Commercio per non consentire a Cina, India, Brasile e Russia, di guadagnare uno spazio commerciale globale pari al proprio. Se analizziamo i livelli di dazi americani a protezione del loro mercato interno, sono molto più alti di quelli europei. Se analizziamo il livello di sussidi alla produzione interna, che da sempre rafforzano la posizione degli Usa nel mercato globale, sono altissimi soprattutto in ambito agricolo. .Ricordo che su questo Obama ha perso una causa esemplare al Tribunale della Wto contro il Brasile proprio perché i sussidi ai produttori Usa del cotone che sono stati riconosciuti come lesivi della concorrenza. Il programma “Buy American” di Obama, che premiava le imprese nazionali nelle gare e negli appalti rispetto alla concorrenza internazionale, che cos’era se non un complesso di misure protezionistiche? Anche il NAFTA, il TTIP e il TPP servivano a garantire ai firmatari delle condizioni commerciali favorevoli rispetto al resto dei concorrenti globali nei mercati di riferimento, cioè centro-nord americano, atlantico e pacifico. Erano misure protezionistiche a geometrie variabili, a leggerle con le categorie della retorica economicista.
La domanda vera da porsi, a mio avviso, è: come impattano le condizioni sociali e ambientali dei territori coinvolti? Il “Buy american” ha garantito una ridensificazione produttiva e un miglioramento delle condizioni sociali di molti distretti industriali americani che erano stati annientati dall’apertura dell’area di libero commercio tra Usa, Canada e Messico attuata dal Nafta. Secondo me, dunque, era una buona politica. Se il Nafta venisse superato da una politica, o da un complesso di misure, che portasse i neoschiavi messicani fuori dalle zone di produzione per l’esportazione promosse dal Nafta, promuovendo un modello industriale più diffuso e sostenibile nel Paese senza precipitarlo nella deindustrializzazione, sarebbe cosa buona e giusta. Se sarà Trump o Ronald Mc Donald in persona a farlo, personalmente non credo, ma mi interessa il giusto. E’ quello il vero obiettivo: come utilizziamo l’economia e tutti i suoi strumenti, anche commerciale, per stare tutti meglio, e perché i diritti di tutti siano rispettati. Voglio parlare di fatti e impatti, gli slogan in un secolo complesso come questo non aiutano.

La Cina come reagirà di fronte a questi provvedimenti?

La Cina si è già presentata al Forum economico di Davos come campionessa della globalizzazione neoliberal e come antidoto al trumpismo. C’è da sorridere. Il modello cinese è quello di un capitalismo di stato talmente controllato da consentire a un investitore straniero di operare sul proprio territorio solo in presenza di una partnership con un soggetto locale. Altro che liberismo! A livello di commercio internazionale se c’è un Paese che, secondo i report dell’Organizzazione mondiale del commercio sul dumping, infrange tutte le regole di liberalizzazione che pure ha sottoscritto pur di mantenere la propria competitività, è la Cina. La Cina ha introdotto il salario minimo, con grande capacità di visione e di coraggio, che è una delle misure che gli Stati Uniti ancora nemmeno osano immaginare proprio per colpa del mantra condiviso della libertà dell’azione economica. Io, personalmente, credo che l’approccio economico cinese al tempo presente sia più strategico di quello europeo, molto interessante, zero ideologico. Ma se qualcuno crede alla sceneggiata di Davos, dovrebbe leggersi il Piano statale quindicennale di programmazione economica del Partito comunista cinese. Io lo trovo una lettura istruttiva sulla distanza tra retorica e realtà.

Ci sarà una riforma del WTO?

In tanti lo auspichiamo da molti anni. Personalmente vorrei che l’Organizzazione mondiale del commercio rientrasse nel sistema delle Nazioni Unite, e che ponesse in tutti gli accordi che promuove  almeno sullo stesso piano, se non su um piano superiore, il rispetto dei diritti umani universali, dei diritti dell’ambiente, dei diritti del lavoro, rispetto alle esigenze del commercio. Ad oggi gli unici  principi che animano la Wto sono quelli della concorrenza leale e della non distorsione del mercato globale. Vi chiedo: se un prodotto fa male, va prodotto e commerciato? Io credo di no, e credo che, nel secolo di Amazon, ci debba essere un’istituzione globale che garantisca tutti gli abitanti del pianeta che esso sia bandito da ogni mercato. Se un prodotto inquina, va commerciato? In un pianeta sporco e invivibile come il nostro, io credo di no, e credo che ci debba essere un’istituzione che garantisca a tutti gli abitanti del pianeta che esso sia bandito dal mercato globale. Se un prodotto è fatto bene, è realizzato rispettando i diritti di chi lo fa, di chi lo consuma, dell’ambiente, crea occupazione e benessere, deve avere un trattamento ‘di favore’ nel mercato globale, perché magari produrlo costa di più, per renderlo accessibile a più persone possibili in tutto il pianeta? Io credo di si. Il fatto che la Wto, con le sue regole, renda di fatto illegale ciascuna di queste tre cose di buon senso, dimostra come sarebbe urgente che i Paesi che ne fanno parte vi ponessero seriamente mano.

Parliamo dell’Europa, una UE che sarà ancora più debole con la Brexit. Il Regno Unito, sicuramente, farà accordi con gli USA. E questo non pensi che porterà danno ai paesi UE? Quale strada  dovrebbe seguire l’Ue? 

 La Brexit è una ferita dolorosissima. Personalmente l’ho molto sofferta, ma non va letta come causa del disastro europeo. La Brexit è un sintomo del fatto che Bruxelles non adotta politiche positive e inclusive tali da far sentire tutti noi a casa in Europa. E per me Europa vuol dire almeno bacino mediterraneo…
Sono un’europeista convinta ma affranta. Quando puoi forzare le strette maglie di una coesione economicista come quella fondata sul debito solo quando subisci un terremoto, e non puoi farlo per intervenire, ad esempio, sulla prevenzione e sulla pianificazione, c’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va se Bruxelles decide che una vongola è vendibile solo se supera un tot di millimetri, se una pesca è vendibile nel mercato comune solo se pesa un tot, senza nessun’altra considerazione qualitativa o di protezione della biodiversità, e così decidendo si sbattono sul lastrico centinaia di migliaia di produttori piccoli, che magari sono proprio quelli che il territorio te lo curano e te lo proteggono. E’ questo il punto: se Bruxelles – non l’Europa, perché l’Europa siamo anche tutti noi che la vorremmo diversissima da com’è – reagisce alla Brexit accelerando, tra l’altro, l’agenda commerciale attuale che sta inasprendo la competizione internazionale, facendo invadere il mercato europeo da prodotti a più basso costo economico ma che danneggiano persone e ambiente, abbassando i costi di produzione interne, in primis quelli legati a stipendi, welfare, qualità e ambiente, dà la risposta sbagliata alle aspettative e ai sogni dei propri cittadini. A quel punto non ci sarà nessuna ragione, che non sia geopolitica, di massa critica, per tenerla in piedi. Ma per quello c’è anche la Nato: siamo davvero ridotti solo a questo?

Adesso, il prossimo 15 febbraio, il parlamento di Strasburgo voterà per il CETA. Tu hai espresso un giudizio duro su questo trattato. Perché? Quali i pericoli? Il Trattato non è un modo per combattere l’isolazionismo protezionista  di Trump?

 Trump non è isolazionista: vuole espandersi nel mondo alle proprie regole. Incontrare i partner faccia a faccia, stringere accordi bilaterali rapido dove i vantaggi per gli Usa siano chiari, così ha detto il suo nuovo capo negoziatore, che arriva dallo staff di Reagan, un campione del liberismo. Per questo ha messo in stand by il TTIP ma non l’ha cancellato: prova a capire se, stringendo un accordo vantaggioso con la Gran Bretagna, non riesca a costringere la Commissione europea ad accettare un TTIP ancora più sbilanciato sugli Usa.
Il Canada ha fatto lo stesso, e lo ha ammesso con i quotidiani nazionali la sua ministra al commercio: quando la regione belga della Vallonia ha chiesto alla Commissione europea di bloccare il CETA, Chrystia Freeland ha lasciato immediatamente Bruxelles: “Abbiamo deciso che era davvero importante non andarcene via da arrabbiato, perché volevamo che i Valloni fossero colpevolizzati”, ha detto testualmente al “Globe”(1). “Sapete, noi siamo canadesi, per la gente siamo gentili, grandi, quindi il tono che abbiamo scelto era più di dispiacere che di rabbia. Questa modalità ha creato una crisi e ha trasformato questo in un loro problema. Nelle 24 ore successive, sapete quanti politici europei mi hanno chiamato per chiedermi di non andarmene?”. Questo è il livello di affidabilità dei nostri partner commerciali che dovrebbero farci da argine a Trump.
Il primo ministro canadese Justin Trudeau, appena Trump è stato eletto si è congratulato pubblicamente per la scelta in virtù dei “comuni valori” dei loro governi, e lo ha di nuovo ringraziato per aver dato il via libera all’oleodotto Keystone XXL bloccato da Obama perché avrebbe accelerato la lavorazione di sabbie bituminone che lui considerava nemiche della sua “rivoluzione verde”.
Oltre a queste considerazioni politiche “di contesto”, già abbastanza decisive per smontare la bufala del “si al CETA” come strumento anti-Trump, vorrei provare a convincere quei parlamentari che vogliono votare, nel centro e a sinistra del Parlamento europeo, si a un trattato così sbagliato senza averlo mai letto, di non fidarsi della propaganda che stanno subendo da parte della Commissione Europea.
Un foglietto che circola tra i loro banchi, e che rinviano via email alle migliaia di cittadini che da mesi gli scrivono ogni giorno da tutta Europa per chiedergli di fermare il CETA, li convince con delle falsità che vorrei smentire.
C’è scritto che con il CETA gli europei risparmieranno 500 milioni di euro in tariffe doganali. Non è vero. Saranno soltanto le aziende che esportano in Canada ad avere questo vantaggio, che in verità è piuttosto risibile se rapportato al valore degli scambi tra Ue e Canada,che già oggi ammonta a più di 50 miliardi di euro. Il CETA però sottrarrà agli Stati europei ben 331 milioni di euro di dazi riscossi fino ad oggi sulle merci in arrivo dal Canada. Questo a fronte di un aumento di Pil che – al lordo della Brexit di cui la Commissione non ha mai calcolato l’impatto sul trattato – per l’Europa, in dieci anni, vale tra lo 0.003% e lo 0.08% e per il Canada tra lo 0.03% e lo 0.76%.
La Tift University statunitense ha calcolato che il CETA provocherà una perdita media di reddito da lavoro media di 615 euro tra tutti i lavoratori UE, con punte minime di -316 euro fino a picchi di -1331 euro in Francia, e la distruzione di 204mila posti di lavoro, dei quali circa 20 mila in Germania e oltre 40 mila sia in Francia sia in Italia.
Si dice che le imprese europee aumenteranno le proprie quote d’accesso negli appalti pubblici canadesi. Ma quante imprese italiane, che sono in gran parte piccole e medie, saranno in grado di parteciparvi? Quello che è certo è che le amministrazioni pubbliche avranno ancora più difficoltà, dopo il CETA, clausole premiali che avvantaggino le imprese del loro territorio.
Triplicheranno le quote di importazione di grano d’oltreoceano, che in Canada è pesantemente trattato con il diserbante glifosato, riconosciuto come tossico anche dall’Ue, e che, a causa dell’umidità e delle basse temperature canadesi, sviluppa micotossine nocive per l’uomo.
Aumenteranno le quote per latte e carne da un Paese in cui gli animali vengono trattati con ormoni della crescita vietati in Europa. Anche se nominalmente il Canada rispetta il principio di precauzione, insieme agli Stati Uniti si appellò contro il bando degli ormoni negli allevamenti introdotto dall’Ue presso l’Organismo di risoluzione delle dispute della WTO, e vinse proprio perché la WTO dichiarò che un concetto come la precauzione, anche se riconosciuto nella legislazione ambientale internazionale, non era rilevante ai fini commerciali. L’Europa, per mantenere il bando, fu condannata a riconoscere a Usa e Canada delle compensazioni.
Per la prima volta nel trattato col Canada viene introdotta una “lista negativa” per i servizi pubblici, cioè un sistema in cui tutti i servizi non esplicitamente menzionati nella lista vanno aperti a gara cui si ammettono anche gli operatori canadesi.
Per la prima volta nel CETA si introduce una Corte sovranazionale costituita da arbitri commerciali in cui un’impresa o un investitore canadese che si sentissero danneggiati da una legge in vigore in Europa, potrebbero farci causa e chiederne la revoca. Per di più, dopo il Ceta, l’UE dovrà consultare il Canada (e viceversa) prima di introdurre nuove leggi o regolamenti che influenzino il commercio tra le due sponde dell’Atlantico, e dovrà attendere i “consigli” di tutti i portatori d’interesse prima di definirne l’articolato.
A queste e molte altre preoccupazioni, la Commissione europea e il Governo canadese, pur di chiudere in fretta la partita, hanno risposto elaborando una Dichiarazione congiunta  nella quale assicurano, sotto la propria responsabilità, che nessuno di questi pericoli è concreto, che gli Stati manterranno la loro capacità attuale di regolare e le imprese non saranno in alcun modo preferite ai cittadini. Peccato che molti pareri autorevoli , uno tra tutti quello dell’esperto Simon Lester  dell’ultraliberista Cato Institute, convergono nel parere che “chiunque abbia preoccupazioni e sia rassicurato da questo testo, sa poco di legge” perché la dichiarazione “vale poco più di un comunicato stampa”.
A me sembra abbastanza per respingere un trattato che rimodella la filiera delle regole sui meri interessi commerciali delle due parti dell’Atlantico, e che non neanche mette niente in tasca se non a piccoli gruppi d’interesse ben rappresentati a Roma e a Bruxelles.

La globalizzazione, pur con i suoi gravi limiti, è stata comunque una occasione di crescita per l’umanità. Adesso nell’era sovranista c’è la voglia di costruire “muri” di ogni genere con quello che ne consegue. Insomma è possibile una nuova globalizzazione? 

Io sono refrattaria a parlare di nuova globalizzazione. Il sovranismo è la risposta a mio avviso più caotica alla mancanza di una governance intelligente di un fenomeno che è parte del genere umano: conoscere e incontrarsi, riconoscersi e definire lo spazio intorno a partire da se’. La globalizzazione è quello che è: da Marco Polo a Colombo fino a internet, è sempre stata cultura, economia, pensiero, passione, competenze. Oggi è la “contemporaneità” la vera sfida, la eterna presenza, l’accelerazione. Rileggere le nostre identità nella velocità è faticoso, e quando i contorni si fanno più labili, è molto umano che c’è chi si voglia fermare, chi ridisegnare i propri confini, chi, invece, fondersi. Sono impatti materiali che vanno governati. Al momento chi è riuscito a farlo sono solo alcune identità forti, pervasive: dagli archi d’oro del panino, ai bit della digital-economy, alle filiere del “vedo, compro, ricevo” e così via, offrono identità portabili, comprese nel prezzo. Ciascuna le offre modellate sui propri interessi. Ma questi vettori che attraversano il mondo lo stringono in maglie sempre più strette: le identità che disegnano per noi riducono lo spazio vitale di ciascuno perché lo costringono nei pochi vuoti rimasti tra i loro intrecci. Come questo spazio, invece, si possa riallargare sulla base di un nuovo patto sociale da ridisegnare non pensando a roccaforti, fossati e confini, ma a partire da una comunità politica, cioè abitante le città, pensante e senziente, che parte da un sé globale ma non indistinto, e rimette l’economia al posto che le compete. Al servizio di un progetto umano condiviso e biodiverso, che potrebbe decisivo per riportare pace e benessere a questa nostra martoriata comunità umana.

(1)  http://www.theglobeandmail.com/news/world/foreign-affairs-warns-trump-of-retaliation-if-border-tariffs-imposed/article33955105/