“I ‘nuovi voucher’ sono una via per combattere il lavoro nero, ma non bastano”. Intervista a Marco Bentivogli

La manovra correttiva da 3,4 miliardi nel 2017 concordata con Bruxelles sarà votata, nel pomeriggio, alla Camera, che oggi darà il suo via libera votando la fiducia al maxiemendamento identico al testo licenziato dalla commissione Bilancio, si sono aggiunti alcune novità. A cominciare dal “nuovo voucher”  (PrestO). Il provvedimento è stato oggetto di forte polemica tra il governo e la Cgil. Ma anche tra Pd e i “bersaniani” . Cerchiamo di capire, in questa intervista,  con Marco Bentivogli, Segretario Nazionale della Fim-Cisl, la “natura”  e le criticità dei “nuovi voucher”

 

Bentivogli, ancora una volta i “voucher” sono la “pietra dello scandalo” nell’ambito della regolazione del lavoro occasionale. Il governo dopo averli aboliti, per evitare il Referendum Cgil, adesso li rimette, sotto altro nome (ora si chiamano “PrestO”). Non   le pare un po’ assurdo e, francamente, irritante il comportamento del governo. .Insomma la Cgil, questa volta, ha ragioni da vendere….

Il tema dei “voucher” è sicuramente importante, benché riguardi lo 0.3% sul totale delle ore lavorate nel 2015 in Italia. Ma di fronte ad una disoccupazione giovanile più alta d’Europa e al forte deficit infrastrutturale che pesa sul nostro paese, forse bisognerebbe concentrare gli sforzi  sulla risoluzione dei problemi con il dialogo sociale. Per questo ha ragione da vendere Sabino Cassese quando dice che i costi del tempo perduto sono oramai insostenibili. Come ho avuto già modo di dire sulla vicenda voucher, l’inventore del Gioco Dell’Oca – chissà chi è e chissà se ne ha mai avuto consapevolezza – è anche l’inventore di una straordinaria metafora della vita politica italiana: ogni 10 caselle si ritorna al punto di partenza. Sui voucher è stato fatto un gran pasticcio. La Cgil ha deciso di trasformare uno strumento buono e utile in un’arma di battaglia ideologica, per di più in un clima di campagna elettorale permanente: tutto questo sulla pelle dei lavoratori ed alle loro spalle. Sui “vecchi voucher” sarebbe bastato un provvedimento per riportarli  al loro scopo iniziale, prima che l’asse Alfano-Bersani-Casini, con la riforma del lavoro introdotta dal governo Monti, ne estendesse l’utilizzo agli impieghi non saltuari. Sarebbe stato sufficiente ripristinare le condizioni iniziali, vale a dire ricondurli ai lavori meramente occasionali, dunque ad arma di contrasto del sommerso. La Cgil ha deciso, invece ,di farne una battaglia ideologica, come spesso accade sui temi del lavoro nel nostro Paese. L’abolizione decisa dal governo al fine di scongiurare il referendum si è dimostrata un boomerang politico per il Pd  e Renzi perché in questo modo è stato confermato che a vincere in questo paese è sempre chi frena. Il Pd ha rinunciato a fare battaglia coraggiosa perché è mancato il radicamento tra i tanti italiani che vogliono il cambiamento, cui evidentemente si preferiscono con le élite di fantomatici innovatori. La morale è che i populisti non si inseguono, si sfidano.

Veniamo ai “PrestO”, ci sono novità (certamente la maggiore tracciabilità e trasparenza). Per lei qual è la più importante?

Il “nuovo voucher” PrestO”, dove la “O” maiuscola sta per occasionale, introduce diverse novità e limiti, come quello dell’utilizzo per le imprese solo fino a 5 dipendenti e l’introduzione di una  soglia di 5 mila euro per datori di lavoro e lavoratori e non più di 2500 dallo stesso datore di lavoro. Cambia anche il valore lordo, che passa da 10 a 12 euro orari (10 netti), e si introduce per le famiglie che volessero farvi ricorso per i lavori domestici ( baby sitting, assistenza agli anziani, lezioni, private ecc.) il cosiddetto “libretto famiglia”. Il libretto sarà  nominativo e prefinanziato, conterrà cioè prestazioni da 10 euro l’ora a cui la famiglia dovrà poi aggiungere due euro l’ora che verserà per i contributi Inps e Inail. Mentre per le imprese fino a cinque dipendenti  (escluse quelle edili e degli appalti) i vecchi buoni verranno sostituti da un “contratto di prestazione occasionale”. Per ogni ora di  lavoro il compenso sarà di 9 euro, cui poi si aggiungeranno i contributi Inps, pari al 33% del compenso, e quelli Inail, pari al 3.5%. Le aziende agricole potranno utilizzare per il lavoro occasionale solo pensionati, studenti e disoccupati. Inoltre “ PrestO” non sarà più acquistabile dal tabaccaio, ma dalle imprese potrà essere attivato esclusivamente sulla piattaforma  del’Inps e per cui totalmente tracciabile mentre le famiglie dovranno aprire il libretto sul sito Inps o presso gli uffici Postali.

Le novità quindi sono molte rispetto ai vecchi voucher, che erano uno strumento sicuramente più flessibile ma che si prestava ad alcuni abusi. Di positivo c’è sicuramente la reintroduzione della tracciabilità, che viene rafforzata. Le imprese dovranno comunicare almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione i dati sul lavoratore, il luogo di svolgimento della prestazione, l’oggetto, la durata e il compenso. Su quest’ultimo, la novità è che non potrà essere inferiore a 36 euro, il che significa che non saranno consentiti impieghi al di sotto delle 3 ore; così come non sarà possibile andare oltre le quattro ore consecutive. Un’altra rigidità della quale francamente si poteva fare a meno.

Ma è proprio questa la via migliore per combattere il lavoro nero?  

Sicuramente è una via, anche se va aggiustato il tiro su alcuni aspetti. Questa nuova versione dei voucher in effetti sana alcune criticità che contraddistinguevano la vecchia formula.  La cosa più importante è che ci dotiamo di uno strumento in grado di evitare che i lavoratori occasionali ripiombino nel nero, che divengano dei “fantasmi” per il fisco, che restino privi di tutele sul fronte previdenziale e assistenziale. Certo, anche se non voglio andare ad ingrossare le fila dei benaltristi, è evidente che bisogna agire pure su altri fronti: il primo che segnalo è quello dei controlli e dell semplificazione. Purtroppo negli ultimi venti anni tutti i governi hanno disinvestito dall’attività ispettiva, lasciando praterie aperte ai furbi. L’abolizione pura e semplice si è rivelata la solita scorciatoia delle “anime belle” che si vogliono mettere a posto la coscienza ignorando il problema.

La verità è che se la lotta al lavoro nero si vuole fare davvero, e necessario innanzi tutto favorirne l’emersione, con controlli che diano visibilità ai comportamenti devianti. Chi controlla, ad esempio, se quello che sulla carta figura come un part-time in realtà non va oltre l’orario stabilito, con pagamento in nero delle ore extra (sempre che vengano pagate)o non si configuri come un lavoro stagionale?

E’ deluso dal governo? Non sarebbe stato meglio coinvolgere il Sindacato?

Di certo sono deluso per come il governo ha gestito la fase precedente. Prima ha avviato un confronto sulle modifiche dei voucher, ha chiesto ai sindacati il loro parere, poi ha fatto dietrofront e ha stabilito l’abolizione. In questo modo ha penalizzato le posizioni più responsabili e riformiste, premiando invece, per un calcolo politico di corto respiro, quelle più massimaliste. Nessuno pensa che l’epoca della concertazione possa rivivere dopo 30 anni, ma mi chiedo se in questo modo non si finisca per portare l’acqua al mulino di chi, come i movimenti populisti, chiede di saltare ogni mediazione per rivolgersi direttamente alla “gente”. Anche il Pd è stato tentato dalla disintermediazione in un momento i cui si percepiva in posizione di forza. Non vorrei che cadesse nello stesso errore per la ragione opposta, cioè perché, dopo la sconfitta del 4 dicembre, si sente più debole. Credo invece che sia nell’interesse di tutti – anche del governo – valorizzare il dialogo con chi nel sindacato ha scelto la strada delle riforme. Lasciando da parte per un momento la questione dei voucher, vedo con preoccupazione la crisi di fiducia nella politica che attraversa le democrazie occidentali. E’ la crisi che l’ex direttore generale della Bbc Mark Thompson analizza nel suo ultimo libro, in cui viene messo in luce lo stravolgimento del linguaggio del dibattito pubblico che si è prodotto con l’irruzione dei social media. Una comunicazione in cui le notizie hanno vita sempre più breve e le emozioni prevalgono sui giudizi degli esperti spalanca praterie ai populisti e rende sempre più difficile formare l’opinione pubblica. Lo vediamo bene, purtroppo, quando al centro di un dibattito del genere finisce il lavoro. Leggo in queste ore che la manovra del Governo sul “lavoro occasionale”  è un “attacco alla democrazia”. Ormai a sentirli e’ un pericolo quasi quotidiano, penso che il più grande attacco sia delegittimare il senso delle parole con un loro utilizzo roboante che ha il solo effetto di abbassare la guardia da eventuali pericoli reali.

Ultima domanda : questa volta c’è l’ accordo sulla legge elettorale , per lei questo significa andare alle elezioni anticipate ? Oppure pensa che sia meglio concludere la legislatura ?

Non entro nel dibattito sulle elezioni anticipate. In linea di massima mi sembra evidente che una legge elettorale in grado di assicurare, quanto meno sul piano teorico, la possibilità di dotare il paese di un governo stabile vada fatta. Preferivo un sistema maggioritario ma credo che in Italia ci sia una nostalgia di proporzionale. Nel contesto in cui ci troviamo, con l’Europa che ci tiene sotto osservazione sui conti, il profilarsi, dopo le elezioni in Germania, di un rilancio dell’asse franco – tedesco e, non ultimo, la probabile uscita dal Quantitative Easing della Bce, l’instabilità è un rischio che non possiamo permetterci.

LA SVOLTA “BERGOGLIANA” DELLA CEI. INTERVISTA A FRANCESCO ANTONIO GRANA

Il cardinale Gualtiero Bassetti, appena nominato Presidente CEILa nomina del Cardinale Bassetti alla Presidenza della Cei (Conferenza episcopale italiana) segna un punto di discontinuità nella Chiesa italiana. Quali gli  sviluppi? Ne parliamo con Francesco Antonio Grana, vaticanista e Direttore dell’Agenzia di Stampa on line “Il Faro di Roma”.

 

Francesco Grana, la nomina di Bassetti, cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve, alla  presidenza della Cei segna definitivamente la fine del lungo ciclo “ruiniano”. Qual è il bilancio di quella stagione?

 Il ruinismo è decisamente finito. Anche se Ruini sostiene che esso sia ancora vivo al di fuori dell’Italia, in altri Paesi europei. Certamente quella stagione della Chiesa italiana oggi sarebbe improponibile con un Papa come Francesco. Ha avuto ragione di vita con san Giovanni Paolo II che ha impostato la Cei in un modo certamente diverso da ciò che oggi Bergoglio chiede a questo organismo ecclesiale. Bisogna sottolineare, però, che Ruini era fedelissimo di Wojtyla e che il Papa polacco nutriva verso il porporato emiliano una stima piena. Il ruinismo, ovvero la presenza forte della Chiesa italiana sul dibattito pubblico, con un interventismo politico abbastanza spiccato, ha funzionato proprio per questo tandem efficace: Ruini-Wojtyla. Fare un bilancio oggi è difficile perché non è rimasto concretamente molto di quella stagione che nessuno rimpiange. Viviamo una Chiesa con un’impostazione decisamente diversa data da Bergoglio. La dimensione pastorale è predominante. È presto per dire se ciò sarà efficace o meno. Certo chi vorrebbe oggi applicare il modello Ruini per stabilire un ponte tra i 5 Stelle e la Chiesa cattolica è destinato a fallire.

 

Quali sono stati i limiti?

Il ruinismo è nato con la fine della Prima Repubblica e con essa della Democrazia Cristiana che ha visto il voto cattolico dividersi, non in modo omogeneo, in tutto l’arco costituzionale. È quindi frutto di un passaggio storico senza il quale quella stagione non solo non avrebbe avuto senso, ma non sarebbe nemmeno esistita. Alcuni limiti li ha fatti notare lo stesso Francesco quando ha rigettato l’espressione di “valori non negoziabili” tanto cara a Ruini e a Benedetto XVI. Per il Papa latinoamericano non è possibile stabilire una scala di gradazioni all’interno della categoria dei valori. Questo è certamente un primo e importante limite del ruinismo. Un altro limite è quello nel dibattito bioetico: al di là del valore della vita dal suo concepimento al suo fine naturale che ovviamente nessuno mette in discussione, non si possono affrontare i singoli casi con un giudizio senza alcuna misericordia. La vicenda di Piergiorgio Welby a cui furono negati i funerali perché aveva scelto l’eutanasia oggi appare a moltissimi dentro la Chiesa una decisione errata. Nel caso di dj Fabo la posizione delle gerarchie cattoliche è stata esattamente l’opposta consentendo la messa in suo suffragio. Altro limite è stato paradossalmente proprio l’efficace interventismo politico che, seppure è riuscito in quegli anni a ottenere significativi risultati elettori, ha dato poi il via alla stagione dell’antipolitica che è appena all’inizio.

 

Quella stagione è stata segnata dalla conflittualità con la politica. In nome dei valori non negoziabili si è ristretto il campo della autonomia dei laici cattolici. Pensi che ora si apriranno spazi? 

Ruini ha sempre respinto l’idea di un partito dei cattolici e ha guardato con molta simpatia al centrodestra. Con Berlusconi c’è stato un lungo e proficuo dialogo che l’ex premier intensificava proprio nei momenti in cui la sua condotta morale era messa alla gogna processuale e mediatica. Bisogna, però, sottolineare che esiste anche l’altra parte della medaglia ovvero l’interventismo della politica nella vita della Chiesa cattolica. Un’immagine che non fa notizia, che si preferisce celare, ma che esiste e non è marginale. Pensiamo, per fare un esempio attuale, al leader della Lega Matteo Salvini che va a trovare a casa il cardinale Raymond Leo Burke. O al ministro degli Esteri Angelino Alfano che è di casa nell’appartamento di monsignor Rino Fisichella. Dubito che trascorrano il tempo della visita a pregare: si parla di politica e di come si possono orientare i voti dei cattolici. In fondo sono proprio i laici più lontani dalle sagrestie che paradossalmente cercano l’approvazione e il consenso della Chiesa. Pensiamo a quanto in queste settimane i 5 Stelle stanno, in modo a dir poco goffo, “corteggiando” il voto cattolico. Grillo è arrivato perfino a definire il suo Movimento “francescano”. Un’eresia, un vero e proprio scivolone oltre che una caduta di stile prontamente bacchetta dal Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin.

 

Bassetti, nella sua prima conferenza stampa, ha affermato che non sarà calcolatore. Cosa significa? Una chiesa più libera da fardelli?

Dare un giudizio sulla presidenza del cardinale Bassetti a poche ore dalla sua nomina sarebbe giocare al chiromante. Il porporato deve ancora “entrare” nel suo nuovo ruolo con un Papa che chiede di reinterpretare la presidenza della Cei alla luce dei criteri pastorali da lui indicati nel documento programmatico del suo pontificato, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Certamente, come Bassetti ha chiarito, il suo non essere un calcolatore non vuol dire essere un improvvisatore. Ma è la volontà di mettersi in ascolto di tutto l’episcopato italiano e creare quella rete di collaborazione e di raccordo tra i vescovi e il Papa per attuare una pastorale incarnata nei problemi delle persone, soprattutto di quelle che vivono nelle periferie non solo geografiche ma esistenziali.

 

Come e quando nasce l’amicizia con Bergoglio?

 Credo che risalga almeno a prima del pontificato. Francesco ha subito testimoniato in modo chiaro, pubblico e concreto la sua stima, oltre che la sua amicizia, per Bassetti. Nei primi mesi del suo pontificato lo ha voluto subito tra i membri della Congregazione per i vescovi, poi nel suo primo concistoro lo ha creato cardinale, nel 2016 gli ha affidato le meditazioni per la Via Crucis al Colosseo, e infine lo ha nominato alla presidenza della Cei.

 

Quali sono le priorità?

Le priorità sono tante: dai migranti che bussano alle nostre porte, alla pedofilia dei preti e non solo; dalla tutela della vita, alla formazione del clero, fino alla difesa della famiglia e a una pastorale efficace per i giovani che vivono il grande dramma della disoccupazione. Sono tutti temi indicati da Bassetti nella sua prima conferenza stampa. Ma c’è una vera priorità ed è quella di sintonizzare l’orologio della Chiesa cattolica su quello dei fedeli di oggi. Le chiese non si svuotano in Italia, i cosiddetti “sbattezzi” nel nostro Paese non sono rilevanti, ma spesso la pastorale è antica e ancora frutto di pregiudizi. Il Papa chiede di spalancare le porte e di accogliere tutti come in “un ospedale da campo”. Bassetti è il “primario” giusto per attuare questa conversione pastorale.

 

Pensi che i circoli tradizionalisti aumenteranno il conflitto contro il Papa per questa nomina?

Certamente Bassetti non è un “lefebvriano”. Non ama i paramenti cinquecenteschi e non indossa abiti cardinalizi lussuosi. E’ un pastore con l’odore delle pecore come piace a Bergoglio e come è lui stesso. E’ facile prevedere che ciò non piacerà ai tradizionalisti che vedono solo nella forma, anche quando è anacronistica come quella che propongono, la sostanza. A Francesco piace esattamente il contrario. Così come a Bassetti.

 

Piano piano Bergoglio continua il suo cammino di cambiamento. Cosa manca ancora per il suo completamento? 

Il volto della Chiesa cambia anche attraverso gli uomini. Le idee hanno bisogno di gambe, non viaggiano nell’etere. Quindi l’aver creato già 61 nuovi cardinali è un segnale importante verso questa conversione pastorale chiesta alla Chiesa da Francesco. Ma pensare che la riforma si esaurisca con le nomine sarebbe utopistico. Preziosi, per esempio, sono stati i due Sinodi dei vescovi sulla famiglia dai quali è scaturita l’esortazione apostolica Amoris laetitia, così come il Giubileo straordinario della misericordia. Francesco traccia una vera e propria enciclica dei gesti dando l’esempio per primo. In questo modo egli propone alla Chiesa un cambiamento che per sua natura è graduale. Se così non fosse, alla fine del suo pontificato non ne resterebbe traccia.

“Va bene migliorare, ma non aspettiamoci miracoli sulla legge elettorale”. Intervista a Stefano Ceccanti

Nei prossimi giorni il Parlamento sarà chiamato a discutere sulla legge elettorale. Una qualche forma di dialogo tra le forze politiche è in corso.
Proviamo, in questa intervista, con il costituzionalista Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale alla Sapienza di Roma, ad immaginare i possibili sviluppi.

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Ratzinger rinuncia alla rinuncia? La fine di un mito. Intervista ad Andrea Grillo

 

Ratzinger rinuncia alla rinuncia? La domanda può sembrare una  provocazione, ma un episodio fa sorgere questo dubbio. Si tratta della pubblicazione di una “prefazione” , come anticipato dal “Corriere della Sera” e dalla “Nuova bussola quotidiana”, ad un libro, dal titolo la “Forza del Silenzio”, del Cardinale conservatore Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto Divino. Sappiamo che il cardinale è un ultras della  “Riforma della Riforma” liturgica del Vaticano II. E sappiamo, anche, che Papa Francesco è su altre posizioni.  Insomma quale “statuto” deve avere il “papa” emerito? Ne parliamo, in questa intervista, con il professor Andrea Grillo ordinario di Teologia al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma.

 

 Professore, il sito ultratradizionalista “La nuova bussola quotidiana ”  e il “Corriere della Sera”, hanno lanciato l’anticipazione della “postfazione” (nell’edizione italiana sarà una “prefazione”) di Joseph Ratzinger (Papa Benedetto XVI) ad un libro (titolo “La force du silence”) del Cardinale  Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino. Sappiamo che il cardinale è un ultras della  “Riforma della Riforma” liturgica del Vaticano II. E sappiamo, anche, che Papa Francesco è su altre posizioni. Non sfugge, quindi, che la decisione di Ratzinger sia da interpretare come una blindatura di Sarah. Insomma un condizionamento non da poco. E’ così?


Bisogna considerare bene la singolarità della situazione. Un papa rinuncia all’esercizio del proprio ministero petrino. Si apre la procedura di successione e viene eletto il successore. Normalmente ciò accade “mortis causa”. Quando la ragione non è la morte del precedessore, ma la “dimissione”, questo fatto apre per la istituzione un delicato caso di possibile conflitto di autorità. Che dovrebbe essere superato dalla “consegna del silenzio” del predecessore. Il quale, nella prefazione con cui esalta le doti del Prefetto Sarah, cita un testo di Ignazio di Antiochia che dice: “E’ meglio rimanere in silenzio…”. Se non solo parla, ma addirittura esalta un Prefetto che ha creato continui imbarazzi alla Chiesa e al suo successore, si apre un conflitto pericoloso, che richiederebbe comportamenti più prudenti e parole più responsabili. Si dovranno prevedere, in futuro, norme che regolamentino in modo più netto e sicuro la “morte istituzionale” del predecessore e la piena autorità del successore, in caso di dimissioni.

Sulla liturgia, all’interno della Chiesa, c’è un dibattito, certo tra addetti ai lavori, decisivo però sul cuore stesso della Chiesa. La liturgia non è mera ritualità: è l’estroversione della testimonianza cristiana; le chiedo, allora, la posta in gioco è molto alta?

La liturgia è fonte e culmine di tutta la azione della Chiesa, come dice il Concilio. Questo significa che una lettura chiusa, inadeguata, nostalgica della liturgia – che Sarah ha in comune con Ratzinger – insidia in radice ogni percorso di “uscita” e di “liberazione dalla autoreferenzialità”. La fissazione sul “rito antico” è, precisamente, il segno preoccupante che accomuna il Vescovo emerito di Roma e il Prefetto della Congregazione del culto. E su questo papa Francesco ha preso posizione con giusta fermezza.

Veniamo a Ratzinger.  Papa Francesco lo ha definito come un “nonno saggio”. E Ratzinger ha manifestato stima nei confronti di Bergoglio. Eppure la visione idilliaca di un “Papa” emerito pone non pochi problemi. Se uno lascia il ministero, anche esteriormente dovrebbe  manifestarlo. Insomma regge o non regge questa “coabitazione”?

 

Non può esserci coabitazione. Questo è ora del tutto evidente. Come è evidente che la veste bianca e la loquacità, oltre alla residenza, debbono essere dettagliatamente normate. Il Vescovo emerito deve allontanarsi dal Vaticano e tacere per sempre. Solo a queste condizioni è possibile configurare una reale “successione”. E’ ovvio che per Ratzinger, come per Bergoglio, si tratta di un “experimentum”, poiché non vi sono precedenti. Per questo si deve fare paziente esperienza di questi inciampi. E non vi è dubbio che questa Postfazione (o Prefazione) sia un capitombolo. Le intenzioni di discrezione e di umiltà sono palesemente violate, in modo quasi scandaloso. E trovo veramente sconcertante che il Vescovo emerito di Roma lodi Francesco per una nomina che sa bene di aver contribuito pesantemente a determinare. Questo mi sembra il dato più grave, un segno di clericalismo e direi anche di una certa ipocrisia.

Vi sono stati episodi di  condizionamento fatti da Ratzinger? Mons.Gaenswein, tempo fa, parlava di un “ministero allargato”…

Anche questi sono “sogni di visionari interessati”: non vi è alcun ministero allargato. C’è una successione al papato che è avvenuta senza morte, ma che deve esigere un silenzio e una discrezione che non alterino l’esercizio del ministero petrino da parte del successore. E’ ovvio che chi perde il potere cerca di mantenerlo. E i segretari spesso sognano e brigano molto più dei pontefici…

ULTIMA domanda: come giudica l’apertura di Papa Francesco nei confronti della “Fraternità San PIO X” , che ha provocato uno scisma negli anni del post-concilio?

Mi sembra che Francesco voglia due cose: comunione e misericordia. E le voglia giustamente con e per tutti. Questo, ovviamente, non significa una “resa incondizionata”. Occorrono adeguate garanzie di “fedeltà a tutta la tradizione” (compresa quella più recente) per poter recuperare una comunione effettiva con chi era caduto in condizione di scomunica. Magari anche recuperando, in forma differenziata, soggetti legati a tradizioni più rigide e chiuse, ed eliminando così la tentazione che per recuperare loro si contaminino le fonti comuni a tutti. Mi riferisco, in particolare, all’uso del “rito antico”, che con un accordo di comunione con i lefebvriani – subordinato a specifiche garanzie – sarebbe sottratto all’”uso straordinario” ed entrerebbe nelle caratteristiche rituali di un settore specifico della esperienza ecclesiale, che per questo risulterebbe accuratamente circoscritto e controllato.

La strategia dell’inganno

1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia.

Un libro di Chiarelettere

 

La strategia dell inganno

IL LIBRO

L’autrice, giornalista d’inchiesta, ricostruisce, in questo libro uscito oggi nelle librerie, Il periodo più nero della nostra Repubblica. La grande crisi di sistema che colpì l’Italia tra il 1992 e il 1993, e che trovò soluzione nella nascita della Seconda repubblica, è segnata da avvenimenti tragici dai risvolti ancora non chiari. Il cosiddetto golpe Nardi, l’assalto alla sede Rai di Saxa Rubra da parte di un gruppo di mercenari in contatto con la Cia, le stragi di Milano, Firenze, Roma, quelle mafiose di Palermo, il black-out a Palazzo Chigi, e in mezzo Tangentopoli, gli scandali del Sismi e del Sisde, la fine dei partiti storici, la crisi economica.

La sequenza di avvenimenti di quel biennio ricostruita in questo libro ha qualcosa di impressionante e fa pensare a una regia che passa attraverso le nostre stesse istituzioni. Come dimostra l’autrice, tutti questi fatti portano il segno di una grande opera di destabilizzazione messa in pratica anche con la collaborazione delle mafie e con l’intento di causare un effetto shock sulla popolazione, creando un clima di incertezza e di paura, e disgregando le nostre strutture di intelligence.

Centinaia di testimonianze, inchieste, processi hanno offerto le prove che in Italia è stata combattuta una guerra non convenzionale a tutto campo e sotterranea.

Furono azioni coordinate? E se sì da chi? Non lo sappiamo. Di certo tutte insieme, in un contesto di destabilizzazione permanente, provocarono un ribaltamento politico generale. Un golpe a tutti gli effetti.

 

L’AUTRICE

Stefania Limiti è nata a Roma ed è laureata in Scienze politiche. Giornalista professionista, ha collaborato con “Gente”, “l’Espresso”, “Left”, “La Rinascita della Sinistra”, “Aprile”. Da anni si dedica alla ricostruzione di pezzi ancora oscuri della nostra storia attraverso la lettura delle sentenze giudiziarie e interviste ai protagonisti. Risultato di questo lavoro giornalistico sono stati i tre libri finora pubblicati con Chiarelettere: L’Anello della Repubblica, Doppio livello e Complici. È attualmente indagata per non aver rivelato, relativamente alla strage di Capaci, le fonti usate nel libro Doppio livello. Stefania Limiti ha seguito con molta attenzione anche la questione palestinese. Ha scritto I fantasmi di Sharon (Sinnos 2002), nel quale ha ricostruito la strage nei campi profughi di Sabra e Shatila e le responsabilità libanesi e israeliane, e Mi hanno rapito a Roma (l’Unità 2006), sulla vicenda del sequestro da parte del Mossad di Mordechai Vanunu, che mise l’Italia sotto i riflettori del mondo intero nel 1986. Inoltre ha realizzato un’inchiesta sul dossier voluto dai Kennedy sull’assassinio di JFK dal titolo Il complotto (Nutrimenti 2012).

Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo un estratto del libro

   

Questo libro

 

Si è voluto, con l’uomo dal passamontagna,

creare una indelebile, ossessiva immagine del

terrore. Il terrore della delazione senza volto,

del tradimento senza nome. Si è voluto deliberatamente

e con macabra sapienza evocare il

fantasma dell’Inquisizione, di ogni inquisizione,

dell’eterna e sempre più raffinata inquisizione.

(Leonardo Sciascia, L’uomo dal passamontagna)

 

Avete presente il colpo di Stato classico, quello realizzato con

i carri armati e l’assalto al palazzo del governo? Bene, dimenticatelo.

Perché la grande crisi di sistema che colpì l’Italia tra il 1992

e il 1993, e che trovò soluzione nella nascita della Seconda repubblica,

passa attraverso sentieri tortuosi, avvenimenti incerti

e patti segreti: una via di mezzo tra il golpe cileno e la sfilata

della maggioranza silenziosa al seguito del generale Jacques

Massu, il torturatore d’Algeria che spianò la strada al generale

Charles de Gaulle.

 

Si susseguirono rapidamente molti eventi in quel biennio,

e, purtroppo, non è possibile stabilire un loro principio ordinatore.

Sarebbe affascinante, magari tirando un solo filo, far

crollare tutto e guardare in faccia l’unico responsabile. Ma assai

più adatta al nostro caso è la visione gaddiana delle cose:

per il commissario Francesco Ingravallo le catastrofi impreviste

non hanno mai un’unica causa, come sostengono alcuni filosofi,

ma sono generate da svariati motivi. Nel caso dei cicloni,

quelli che riservano a tutti una fase di profondo e generale

sconvolgimento, quelli che cambiano la vita delle persone e

di un paese intero, cercare un’unica causa è solo una perdita di

tempo. E il biennio che aprì gli anni Novanta è molto simile a

quel gaddiano «punto di depressione ciclonica nella coscienza

del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità

di causali convergenti». L’insieme dei fatti diventa un «nodo o

groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire

gomitolo. […] L’opinione che bisognasse “riformare in noi il

senso della categoria di causa” quale avevamo dai filosofi, da

Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause

era in lui [don Ciccio] una opinione centrale e persistente». Per

l’ineffabile commissario il «pasticciaccio» non può che essere

l’insieme delle cause che hanno generato il delitto e che vorticano

come un mulinello attorno all’investigatore.

 

Gli avvenimenti di quel biennio raccontati in questo libro

hanno il segno del golpe. Il politologo americano, «brutalmente

repubblicano» (Come lo definisce Enrico Deaglio), Edward Luttwak diede alle stampe nel 1968 un

famoso «manuale pratico«, aggiornando l’ormai ingiallito lavoro

di Curzio Malaparte, e definì il colpo di Stato «l’infiltrazione

di un settore limitato ma critico dell’apparato statale e del

suo impiego allo scopo di sottrarre al governo il controllo dei

rimanenti settori». In Italia andò proprio così. Senza esercito o

blitz nei centri nevralgici del potere ma attraverso una sottile e

strisciante «strategia dell’inganno», furono messe in pratica diverse

azioni che avevano le caratteristiche delle operazioni psicologiche

(PsyOps) e che ebbero un enorme impatto mediatico,

un effetto shock sulla percezione della sicurezza nazionale e la

disgregazione delle nostre strutture di intelligence. Furono azioni coordinate? Non lo sappiamo. Se agì una sovrastruttura della destabilizzazione – in passato si era verificato

–, lo fece nel profondo della clandestinità e ci vorrà tempo

perché affiori uno straccio di prova della sua esistenza.

 

Con meno incertezza possiamo affermare che agì una dimensione

clandestina dello Stato. Nella cosiddetta Prima repubblica

aveva funzionato un delicato equilibrio tra il sistema democratico-

parlamentare, pubblico e legittimo, fondato sull’antifascismo,

e un lato occulto del potere fondato sull’anticomunismo.

Una sorta di doppia conventio ad excludendum: una democrazia

costituzionale, edificata sull’esclusione dell’estrema destra neo-

fascista e sull’inclusione del Partito comunista, e una pratica

anticostituzionale che legittimava la destra neofascista ed escludeva

i comunisti e la sinistra. Fortissime furono le pressioni sulla

vita politica italiana, esercitate in forme spesso illegali, affinché

quel doppio regime funzionasse, soprattutto attraverso l’uso

dei gruppi terroristici e della criminalità organizzata. Questi

ultimi sedimentarono anche legami tra determinati apparati

dello Stato e i propri rappresentanti, condizionando la storia

italiana, forse ben oltre le dimensioni oggi note.

 

Nel mondo postcomunista non è andata molto diversamente.

Durante la nostra Seconda repubblica ha agito un livello

pubblico del potere e un’entità sconosciuta, espressione di interessi

particolari e potenti, un deep State, per usare un termine al

quale recentemente si fa spesso ricorso. Sdoganato dalla stampa

anglosassone dopo il coup dei militari in Egitto nel 2013, ma

usato per la prima volta in Turchia nel 1996, il deep State (Mike Lofgren, The Deep State. The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government , Penguin Books, Londra 2016) si

riferisce a quegli apparati segreti o meno, comunque sovrastatali

e fuori da ogni controllo politico-elettorale, in grado di usare

risorse umane e finanziarie tali da determinare le sorti di una

nazione. Taluni utilizzano quest’ampia categoria in riferimento

ai regimi illiberali, altri ad esempio per indicare il complesso

di interessi che ha agito e affondato molti progetti dell’amministrazione

Obama. In ogni caso, non è in discussione la sua

esistenza, semmai il suo modo di essere nelle determinate circostanze.

È un potere antidemocratico embedded, incistato, nelle

strutture democratiche del potere, cane da guardia degli interessi

di una piccola parte a scapito di una maggioranza disgregata,

impoverita e senza voce. Proprio come quello che ha agito

nel nostro paese nell’ultimo decennio del Novecento.

 

Stefania Limiti, La strategia dell’inganno 1992-93. Le bombe, i tentati golpe, la guerra psicologica in Italia, Editrice Chiarelettere ,Milano 2017, pp. 288, € 16,90