“Non volevo morire vergine”.
Intervista a Barbara Garlaschelli

Un libro forte, che fa emozionare. E’ davvero un inno alla vita quest’ultimo libro della scrittrice milanese Barbara Garlaschelli. “Non volevo morire vergine”, uscito da poco nelle librerie, pubblicato dalla Piemme (pagg, 199, € 17) è il racconto della sua lotta contro i tabù e i pregiudizi: “ad un certo punto -dice l’autrice – mi sono resa conto che se volevo davvero “non morire vergine” (e intendo non solo da un punto di vista sessuale ma di vita) dovevo ribaltare a mia favore il fatto di essere su una sedia a rotelle”. Così con ironia, ed autoironia,ma anche con molta serietà e fermezza  vediamo la trama della sua lotta per riappropriarsi della sua sensualità. Ne parliamo in questa intervista con l’autrice. Per il libro è previsto un tour di presentazioni in tutta Italia. Presentazioni che avverranno in una forma originale: ovvero portando in giro il libro non nella solita forma della classica presentazione, ma come reading musicale, accompagnata da Stefania Carcupino, alla fisarmonica e al canto. Il reading ha il padrocinio dell’Associazione culturale Tessere Trame (tesseretrame.com). La foto che pubblichiamo, per gentile concessione, è tratta dalla pagina Facebook dell’autrice ed è stata realizzata dalla fotografa Paola Cominetta.

Barbara, confesso che leggere il tuo libro mi ha emozionato, commosso ed ho anche riso (la tua ironia ed autoironia è micidiale). Tu in questo libro rompi diversi tabù. Il primo, secondo me, è quello di aver reso pubblica la paura (concreta, vera, realissima) che un disabile ha nel manifestare i suoi sentimenti, il suo desiderio carnale. Come hai fatto a demolire questo tabù?

L’ho demolito vivendo la paura e cercando di venirne a patti. Ho impiegato molti anni per superarla (tra l’altro la paura è uno dei temi che tornano spesso nei miei romanzi, e non intendo i due autobiografici). La paura è una formidabile sfida perché ti costringe a decidere cosa fare della  vita: se rimanere inchiodata a lei oppure sfidarla – e quindi sfidare te stessa – e andare oltre. Ma la paura, comunque, è sempre lì, in agguato. 

Tu sei una scrittrice, di talento, affermata. Quanto ti ha aiutato la scrittura nel superare la paura?

​La scrittura è stata fondamentale perché mi ha offerto gli strumenti tecnici per raccontare qualcosa che, a tratti, appare irraccontabile. Se non fossi stata una scrittrice non avrei mai potuto farlo.​

L’origine letteraria del libro, diciamo così, è stata la pubblicazione di post comici, su Facebook, sul tema “sesso e disabilità”.  Che hanno avuto un gran successo. Ed è sicuramente un bel segno. Ti chiedo: pensi che nella mentalità, comune, sia superata quel tipo di idea che vede nel disabile uno “sfigato” in particolare sul piano affettivo e sessuale? Io temo di no, parlo della mentalità italiana che è ancora legata alla cultura greca e latina della forza…Un canone che si è affermato in Occidente. Qual è il tuo parere?

Abbiamo ancora molta strada da fare in Italia. Qui il disabile è visto, spesso, come un essere asessuato, da curare e coccolare, che non ha pulsioni, aneliti, desideri. Mentre i disabili sono donne e uomini come tutti e hanno diritto a vivere ciò che vogliono. Non siamo una categoria protetta ma essere umani con pari diritti, doveri e dignità degli altri. Allo stesso tempo non si possono negare gli oggettivi limiti e quindi non bisogna nemmeno incorrere nell’ipocrita affermazione “siamo tutti uguali” perché non è vero, nel senso che chi ha dei problemi deve anche avere gli strumenti necessari – assistenza medica, accesso a luoghi pubblici senza barriere, soldi per vivere –  per poter avere una vita come gli altri.

A questo proposito ho letto che una grande rivista ha rifiutato di pubblicare le tue foto con tuo marito. Perché?

 Ufficialmente perché non adatte, ufficiosamente perché c’erano “troppo corpo e troppe tette”. Vorrei sottolineare che queste foto, scattate anni fa da Paola Cominetta, grande fotoreporter con in cantiere un bellissimo progetto – di cui anche queste foto fanno parte – su sensualità e disabilità fermo perché nessuno ha avuto, ad oggi, il coraggio di sponsorizzarlo, sono foto bellissime e nient’affatto volgari. Certo, c’è molto “corpo” e molta sensualità. E forse il fatto che io e mio marito non siamo modelli che corrispondono ai canoni richiesti da questo genere di riviste ha pesato. Però sono state pubblicate altrove e in riviste anche molto famose, come “Vanity Fair” o quotidiani come “La Stampa”. per non parlare di Facebook dove avevo postato il pezzo in cui raccontavo la vicenda, con foto annesse e che è stato condiviso da centinaia di persone.

Torniamo al libro. Nel libro ti vediamo all’opera nel demolire il primo grande tabù : quello della sedia a rotelle. E’ stato un cammino lungo. Fino a diventare, per paradosso, uno strumento di seduzione…Nel senso che la tua persona non si esauriva nella sedia a rotelle ma la  sedia enfatizzava la tua sensualità. E’ così?

 Sì, è così. Ad un certo punto mi sono resa conto che se volevo davvero “non morire vergine” (e intendo non solo da un punto di vista sessuale ma di vita) dovevo ribaltare a mia favore il fatto di essere su una sedia a rotelle. Mi sono detta: la gente mi guarda perché sono su questo mezzo di trasporto, bene e allora io faccio in modo che mi guardino perché sono bella, seducente.​

​ E ho cominciato a “usare” il mio corpo e la mia mente seguendo questa direzione: quella del “sedurre”.​

 L’altro tabù che demolisci è quello corporale. Non neghi, ovviamente, il limite. Ma c’è stato un cammino di riappropriazione del tuo corporale. Un cammino mentale (la ferma volontà di “non voler morire vergine”) e poi fisico (sono belle le pagine in cui descrivi le sensazioni, gli orgasmi come massima riappropriazione del corpo e della mente). E’ così?

​Sì, per molti anni ho negato a me stessa una parte di vita affettiva, di sensi, d’amore. Ed era parte enorme e importante quella legata al mio corpo che ho dovuto incominciare ad amare di nuovo, anche se era un po’ cambiato (esternamente non molto, ma la sensibilità, per esempio, in parte era sparita. Non sapevo se avrei potuto provare piacere facendo l’amore, se avrei potuto farlo provare ). E’ stato un universo da esplorare. Ed è stato difficile ma anche di straordinaria vitalità ed entusiasmo.

Il dolore quanto ti ha aiutato a maturare?

​Il dolore non mi ha aiutato. Io lo ripeto spesso: il dolore è un limite enorme, un’ingiustizia per chi lo subisce. Io ne ho provato e ne provo ancora molto ed è un ulteriore handicap. Se mi ha insegnato qualcosa è stato combatterlo e a non lasciarmi soggiogare da esso, ma è una battaglia giornaliera. Sogno di svegliarmi una mattina senza dolori, né grandi né piccoli. ​

 Prima di incontrare Giam​paolo, tuo marito, hai conosciuto altri uomini. E, alcuni non ne escono bene, quale era il loro limite più grave?

Che erano degli “omarini” come li definiva mio padre Renzo. Uomini attratti da me ma senza il coraggio di vivermi fino in fondo, di prendersi una responsabilità. Mi hanno fatta soffrire ma si sono persi molte cose belle, credo. (Non sono molto modesta, ma è ciò che penso in tutta sincerità. E la sincerità è un elemento fondamentale in questo libro.) Per fortuna ne ho incontrati anche di meravigliosi.

 Cosa hai fatto per conquistare tuo marito?

Ho messo in mostra tutta la mia bellezza! E poi è scattato un amore reciproco e una forte attrazione da subito. Quando l’ho visto per la prima volta, come racconto nel libro, mi ha colpito la sua bellezza. Poi ci siamo conosciuti meglio e l’amore è diventato forte e solido, ma il nostro è stato davvero un colpo di fulmine. Credo che se entrambi non ci fossimo piaciuti fisicamente la storia sarebbe andata in modo molto diverso. ​

 Nel tuo cammino di emancipazione la tua naturale sensualità e bellezza ti ha aiutato molto. Così come la visione della sessualità non bacchettona. Però senza la tua famiglia, dalla mentalità aperta, rispettosa dei tuoi diritti e sentimenti, il tuo percorso sarebbe stato più difficile. Un ruolo importante l’avuto tuo papà. Perché ?

Io ho sempre avuto un rapporto di grande complicità e intimità con i miei genitori, questo anche prima dell’incidente, ed è stata una grande fortuna perché non abbiamo dovuto costruirlo da zero. E sia mia madre che mio padre volevano che io vivessi tutto della vita. Mio padre, soprattutto, trovava inaccettabile che mi fosse negata quella parte di universo fatta di amore e sensi con l’altro sesso. E mi hanno sempre aiutata, mai criticata, anche quando facevo scelte discutibili, e spalleggiata.

E il fatto di avere un aspetto gradevole è stato senz’altro d’aiuto. Ma questo aspetto me lo sono conquistata negli anniCi ho impiegato molto a fare emergere la femmina che era in me.

Ultima domanda: Il libro inizia con l’acqua e finisce con l’acqua . Un finale profondo….

​Nasciamo nell’acqua e questo cordone ombelicale io non l’ho mai spezzato, anche se è lì che la mia vita si è trasformata, mio malgrado, dopo un tuffo in acqua bassa, al mare​. In acqua, ma soprattutto nel mare, mi sento libera, senza peso. Ho una resistenza che non mi sogno di avere sulla terraferma sulla quale fatico a respirare, a spingermi. In acqua ho tutta la forza che fuori non ho. Non c’è niente che sia pacificante e accogliente come il mare. Forse il corpo di mio marito.

 

La lezione di Macron all’Italia. Intervista a Giorgio Tonini

Si andrà sempre più verso una Europa a due velocità? Questa sembra la direzione che l’elezione di Macron a Presidente della Repubblica francese imprimerà all’UE. Direzione, con asse franco-tedesco, confermata anche dall’intervista a Repubblica, uscita questa mattina, dal ministro delle Finanze tedesco Schäuble. Quale “lezione” porta l’elezione di Macron all’Eliseo? Ne parliamo, in questa intervista, con Giorgio Tonini, senatore del PD e Presidente della Commissione Bilancio a Palazzo Madama.

Senatore Tonini, non possiamo non partire dalle elezioni presidenziali francesi: qual è la lezione politica che ci viene dalla Francia?

 Se devo sceglierne una in particolare, direi che i francesi ci hanno detto che i problemi agitati dai populisti, sia di destra che di sinistra, sono problemi veri, ma le soluzioni da loro proposte sono invece sbagliate, perfino controproducenti. Macron ha colto la domanda di sicurezza e di protezione che sale dalla società francese. Ed ha convinto due terzi dei suoi concittadini che lo Stato nazionale, anche uno Stato forte ed efficiente come quello francese, non è più in grado, da solo, di corrispondere a queste esigenze profonde, per insuperabili problemi di scala. Solo una sovranità condivisa, come quella che faticosamente, da più di settant’anni, quindi da ben prima dei Trattati di Roma, stiamo cercando di costruire a livello europeo, può dare risposte efficaci ai problemi dei popoli.

 Il populismo  sovranista è stato sconfitto, ed è una gran fortuna per tutta l’Europa. Certo rimangono, tra i grandi Paesi fondatori dell’UE,  Germania e Italia. Sappiamo che in Germania il confronto sarà tra due europeismi robusti. In Italia,  siamo , come afferma Enrico Letta sulla “Stampa”, impelagati in un dibattito, per la verità sembra più una rissa in un cortile, tra “euro-fobici”, “euro-scettici” e “euro-timidi”.  Insomma siamo ancora l’anello debole. Qual è la sua opinione?

Se guardiamo ai fatti e non ci lasciamo irretire dal chiacchiericcio mediatico quotidiano, vediamo che il Partito democratico, cioè il principale partito italiano, il partito baricentrico degli equilibri politici e di governo del paese, non solo ha l’Europa nel suo dna, non solo ha rappresentato e rappresenta il principale argine in Italia al populismo antieuropeo, ma è anche uno dei protagonisti assoluti del dibattito, del confronto, talvolta del conflitto, in atto in Europa sul futuro dell’Unione. Quando dunque andremo a votare per il nuovo Parlamento, presumibilmente qualche mese dopo i tedeschi che votano in settembre, la posta in gioco sarà molto chiara e riguarderà la partecipazione o meno dell’Italia al gruppo di testa della nuova Europa a due velocità che, grazie all’esito delle elezioni francesi, si può dire, ormai con un certo grado di certezza, che prenderà il largo.

Veniamo a Macron. Anche qui, come al solito, si è scatenata, in Italia, la corsa, ed è il segno del nostro provincialismo, a chi è più vicino al leader francese. Non Sarebbe più corretto prendere atto che la vicenda del giovane Presidente è un fenomeno tipicamente francese. Questo non significa che non possano esserci affinità con Renzi, non le sembra esagerato l’atteggiamento di Matteo Renzi di appropriarsi del personaggio? 

Cercare le affinità e le differenze sul piano personale, tra Renzi e Macron, può essere divertente e magari interessante per il pubblico di un talk show. Sul piano politico, è evidente l’alleanza tra i due leader, entrambi impegnati sulla frontiera del riformismo europeista. Sul piano istituzionale invece, tanto più dopo la bocciatura della nostra riforma costituzionale al referendum del 4 dicembre scorso, un abisso separa purtroppo il neoeletto president de la Republique, che potrà disporre di tutta la forza che la Costituzione riformata da De Gaulle mette in capo all’Eliseo, dal segretario e candidato premier di una Repubblica perennemente a rischio di ingovernabilità.

E tanto per rimanere nel tema sappiamo che  vi sono differenze tra i due su diversi dossier economici. Per esempio Macron spinge sulla riduzione del debito pubblico. L’obiettivo è quello di portare, in tempi rapidi, il rapporto deficit-pil all’1%. Un obiettivo per noi ancora lontano. Certo poi ci sono gli investimenti, l’ecologia ecc. Insomma guarda più alla Germania che al Sud dell’Europa. Renzi è consapevole di questo?

Per la verità, nel rapporto deficit-pil, siamo assai più vicini all’1 per cento, e in definitiva al pareggio strutturale, noi italiani, rispetto ai cugini francesi. Che hanno un debito storico meno grande del nostro, ma anche anni di deficit assai più alti, comunque sopra il 3 per cento previsto dai Trattati. Macron si è impegnato a mettere ordine nei conti della Francia. E ha proposto ai tedeschi (e a noi italiani) un patto politico nuovo, basato sul risanamento dei conti dei singoli Stati membri, reso sostenibile da vere politiche espansive a livello di Unione. Per questo Macron ha rilanciato la proposta di un bilancio dell’Eurozona, finalizzato a sostenere un ambizioso programma di investimenti che innalzi il livello di crescita in tutta l’area; un bilancio gestito da un ministro delle Finanze, che ne risponda ad un Parlamento dell’Eurozona. I tedeschi al momento sono cauti e tali rimarranno fino alle elezioni di settembre. Ma sono convinto che il 2018 ci regalerà una nuova convergenza tra Parigi e Berlino, basata su questa innovativa piattaforma francese. Noi abbiamo tutto l’interesse a proporci come comprimari da subito di questo accordo per la riforma dell’Eurozona. E la Francia ha tutto l’interesse a trattare con i tedeschi potendo contare su una convergenza con gli italiani. Non a caso nel suo manifesto politico-programmatico, enfaticamente titolato “Révolution”, Macron non parla mai di asse franco-tedesco, ma di rilancio del progetto europeo “insieme alla Germania e all’Italia e ad alcuni altri paesi”.

 Comunque questa elezione rappresenta l’ultima occasione per l’Europa di riformarsi. Macron spingerà  “a tavoletta” sul rafforzamento dell’UE. Riuscirà l’Italia a stare dietro a questa accelerazione?

 È questa la vera incognita. E anche la maggiore incertezza che grava sul futuro dell’Europa, una volta messa in sicurezza la Francia grazie alla vittoria di Macron. Ma mentre alle elezioni francesi si giocava il futuro d’Europa, che sarebbe stato radicalmente compromesso con la vittoria della signora Le Pen, alle prossime elezioni italiane sarà in gioco solo l’Italia. L’Europa e l’euro, comunque, andranno avanti, con o senza di noi. Starà a noi decidere se vogliamo restare saldamente agganciati all’Europa, come perfino la Grecia ha scelto di fare, o se invece davvero preferiamo lasciarci andare alla deriva nel Mediterraneo…

 Parliamo per un attimo del PD. Renzi ha stravinto il Congresso, appena eletto è parso “ecumenico” però poi all’Assemblea di domenica ha continuato nell’ingordigia: niente Presidente alle minoranze. Insomma il “ragazzo” non perde il vizio…

 Il Pd è l’unico grande partito italiano nel quale la leadership sia effettivamente contendibile e sottoposta alla periodica verifica del consenso della base. Non a caso il Pd, nei suoi primi dieci anni di vita, è passato dalla leadership di Veltroni, a quella di Bersani e poi a quella di Renzi. Né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle conoscono qualcosa di lontanamente paragonabile. Sono entrambi proprietà rispettivamente di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo. Un po’ come gli Stati assoluti erano proprietà privata del sovrano. Matteo Renzi, nonostante la sconfitta al referendum e le dimissioni da presidente del Consiglio, la scissione a sinistra e la competizione interna con due avversari di tutto rispetto, è stato voluto di nuovo  alla guida del partito dal 70 per cento di 1,8 milioni di elettori del Pd. Una rinnovata apertura di credito che gli consegna una grande forza. Sta ora a lui non sprecarla. Resta curioso il fatto che in Italia l’unica “deriva autoritaria” di cui ci si occupa è quella, immaginaria, dell’unico partito che possa essere definito democratico.

 Tra un anno, se  tutto va bene, ci saranno le Elezioni. Non sarebbe il caso, per il PD, di abbandonare la chimera del 40% e puntare, invece più saggiamente, a costruire una coalizione di centrosinistra ?

 Dal 1994 fino al 2013 le coalizioni sono state create per vincere le elezioni e non per governare. Con tutte le conseguenze del caso… C’è assai poco di saggio, a mio modo di vedere, nel rimpiangerle e nel riproporle. Credo che si andrà a votare tra un anno con un sistema sostanzialmente proporzionale, quale quello scaturito dalle due sentenze della Corte. Non vedo infatti né le condizioni politiche, né quelle tecnico-giuridiche, per una riforma elettorale che produca un vero effetto maggioritario, nella elezione di due Camere con gli stessi poteri e una composizione molto diversa. Il Pd andrà alle elezioni con l’obiettivo di essere confermato primo partito del paese e cercherà poi di costruire attorno a sé una coalizione di governo, omogenea sul piano programmatico, a cominciare dalla riforma dell’Europa. Ma è probabile che nella prossima legislatura il tema della riforma costituzionale si riproponga e che si formi un arco di forze disponibili a sostenere un modello di tipo semipresidenziale alla francese.

Legittima difesa, OPAL Brescia: “Così si incentiva l’uso delle armi”. Intervista a Mimmo Cortese

Il tabellone con il voto finale sulla modifica dell’articolo 59 del codice penale che riguarda la legittima difesa (Ansa)

La scorsa settimana la Camera ha approvato alcune modifiche alla legge sulla legittima difesa, che dovranno ora passare all’esame del Senato. Le nuove norme hanno suscitato un aspro dibattito nel mondo politico e nell’opinione pubblica: il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte, ha definito il provvedimento “inutile e confuso”. Anche l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa (OPAL) di Brescia ha sollevato diverse questioni riguardo alle modifiche della legge. Ne parliamo, in questa intervista, con Mimmo Cortese, membro del Consiglio scientifico di OPAL.

 

Anche voi, come Osservatorio, avete espresso diverse critiche. Cosa non va e perché?

Molta attenzione, e anche una certa ironia, è stata indirizzata alla questione dell’aggressione commessa di notte. Il punto centrale è, invece, nel passaggio che prevede che la colpa di chi spara sia sempre esclusa quando l’errore sia la conseguenza di un “grave turbamento psichico” causato dall’aggressore. Si tratta, innanzitutto, di una categoria giuridica fino ad ora inesistente che metterà a dura prova i giudici che dovranno definire la sussistenza del “grave turbamento”. Ma soprattutto, porterà a pensare che, dotandosi di un’arma, non solo la propria sicurezza risulterà più garantita ma che la propria impunità, nel caso di reazione armata ad un aggressore, avrebbe di gran lunga più possibilità di essere affermata. E’ un messaggio che – come ha evidenziato il ministro della Giustizia, Andrea Olando – porterà a favorire la diffusione delle armi e che, aggiungo, indurrà a farsi giustizia da soli senza però garantire una maggiore sicurezza, ma che anzi risulterà ad un aumento della violenza armata.

 

Immagino si riferisca alla situazione degli Stati Uniti. E’ così?

Quello che accade quotidianamente negli Stati Uniti è sotto gli occhi di tutti: la libera circolazione delle armi non favorisce affatto la sicurezza, ma aumenta l’insicurezza e porta a reazioni sconsiderate e oltremodo violente non solo da parte dei cittadini ma anche delle stesse forze dell’ordine: una banale rissa diventa una sparatoria e non è raro che un semplice controllo stradale si trasformi in un omicidio. Ma mi riferivo anche a quanto già succede in Italia. Sebbene la situazione non sia certo comparabile a quella degli Stati Uniti, ci sono però diversi dati ai quali occorrerebbe porre maggior attenzione: il tasso di omicidi dell’Italia è, infatti, dopo quello degli Stati Uniti, il più alto di tutti i paesi del G7 e l’Italia è il paese nell’UE con la più alta percentuale di omicidi per armi da fuoco. E ciò nonostante nel nostro paese la disponibilità delle armi sia relativamente bassa. Le statistiche internazionali spesso non specificano se gli omicidi sono stati compiuti con armi legalmente detenute e per questo OPAL ha aperto un “Database degli omicidi e reati in Italia con armi legalmente detenute che, stando ai dati raccolti in questi mesi, evidenzia già diverse questioni preoccupanti.

 

Quali sono?

Limitandoci al primo trimestre di quest’anno, a fronte di due o tre casi in cui le armi legalmente detenute da cittadini sono state utilizzate per sventare un’aggressione o un furto in casa – e uno di questi casi è quello di Casaletto Lodigiano in cui uno dei ladri è stato ucciso, caso che è sotto indagine – vi sono ben dieci casi di omicidi compiuti con armi legalmente detenute che hanno portato alla morte di 15 persone. Vi sono inoltre una quindicina di legali possessori di armi che sono sotto indagine per tentato omicidio, minaccia di morte e minaccia aggravata e sono diversi anche i casi di legali possessori di armi scoperti con armi illegali. Tornando agli omicidi, l’unico caso che ha suscitato una certa attenzione a livello nazionale è quello del panettiere di Vasto, Fabio Di Lello, che ha ucciso in pieno giorno il giovane Italo D’Elisa per vendicarsi dell’investimento mortale della moglie. Vi è stato un acceso dibattito sui presunti ritardi della giustizia, ma pochi hanno fatto notare che Di Lello, nonostante l’uso di psicofarmaci per curare la depressione, deteneva regolarmente un’arma per uso sportivo.

 

Il tema della legittima difesa è strettamente correlato alle norme che riguardano la detenzione e il porto d’armi. Come valutate la normativa italiana?

Contrariamente al diffuso luogo comune, la legislazione italiana è sostanzialmente permissiva in materia di detenzione di armi: oggi, a qualunque cittadino incensurato, esente da malattie nervose e psichiche, non alcolista o tossicomane, è generalmente consentito di possedere fino tre armi comuni da sparo, sei armi sportive e un numero illimitato di fucili da caccia. Mentre, infatti, il porto d’armi per difesa personale richiede di motivare la necessità e ottenere dal Prefetto un’esplicita autorizzazione che ha validità annuale, per le licenze per uso sportivo e per attività venatorie è sufficiente una semplice richiesta alla Questura allegando le certificazioni di idoneità psico-fisica e di capacità di maneggio delle armi: queste due licenze hanno una validità di sei anni. Anche per il “nulla osta” per detenere armi non è richiesto di motivare il bisogno ma, come per le altre licenze, è solo necessario richiedere l’autorizzazione alla Questura.

 

Una situazione che, secondo quanto avete segnalato, sta inducendo numerosi italiani a chiedere una licenza per “tiro sportivo” al fine di poter avere un’arma in casa. E’ così?

I dati rilasciati dal Viminale mostrano un forte incremento soprattutto delle licenze per tiro sportivo che nel giro degli ultimi cinque anni sono aumentate di oltre 100mila unità, mentre sono in costante calo quelle per la caccia. Ora, se è vero che per praticare il tiro a segno amatoriale non è obbligatorio essere iscritti ad una federazione nazionale, è però altrettanto vero che le due maggiori associazioni nazionali dichiarano nell’insieme di non superare i 100mila tesserati, mentre sono quasi 460mila gli italiani che detengono una licenza per tiro sportivo. Non è quindi improprio pensare che la licenza di tiro sportivo stia diventando un modo tutto sommato facile per poter detenere un’arma per scopi che nulla hanno a che fare con le attività sportive ma che riguardano invece la difesa personale, della propria abitazione o esercizio commerciale.

 

Voi proponete, quindi, un maggior rigore in un’ottica di responsabilità. Può spiegarci meglio?

Lo abbiamo fatto con un comunicato di OPAL col quale abbiamo sottoposto all’attenzione delle rappresentanze politiche una serie di indicazioni molto precise per migliorare le normative vigenti riguardo all’accesso e alla detenzione di armi. Non posso qui illustrarle tutte, ma il principio alla base è che ogni tipo di licenza debba essere adeguatamente motivato specificando la necessità di detenere l’arma e che il rilascio di ogni tipo di permesso debba essere valutato dalle autorità competenti anche a seguito di precisi accertamenti medici e non, come avviene attualmente, solo con una autocertificazione controfirmata dal medico curante e un semplice esame di idoneità psico-fisica da parte dell’ASL. Crediamo inoltre fondamentale che la legge definisca con precisione il tipo e il numero di armi e munizioni che possono essere detenute per la difesa personale, in ambito abitativo o di un esercizio commerciale prevedendo soprattutto l’utilizzo di armi e munizioni di tipo non letale ed escludendo tutte le armi di tipo sportivo o da caccia.

 

Torniamo alla questione della legittima difesa. Ci sono dei correttivi da apportare alla legge attuale? Secondo voi, quali principi andrebbero invece mantenuti saldi e invariati?  

Riteniamo che si possano considerare alcuni correttivi a quelle norme che rischiano di penalizzare ingiustamente la persona che subisce un’aggressione: pensiamo, ad esempio, alle norme che in un certo senso finiscono per mettere sullo stesso piano l’aggredito e l’aggressore. Ma non è ammissibile alcun tipo di modifica che si fondi sull’assunto secondo cui “la difesa è sempre legittima”. Per essere legittima la difesa deve, infatti, sempre rispondere alle condizioni, previste nel nostro ordinamento, della necessità di difendere se stessi o altri (e quindi come extrema ratio), di attualità o inevitabilità del pericolo (il pericolo deve essere reale ed effettivo e non solo ipotetico, presunto o possibile) e di proporzionalità tra difesa e offesa. Inoltre, e questo è fondamentale, va ribadito che la potestà punitiva appartiene esclusivamente allo Stato che deve garantire le misure idonee a salvaguardare la sicurezza della collettività proprio per prevenire forme di “giustizia privata”.

ADISTA, l’agenzia che tiene viva la memoria del Concilio. Intervista a Valerio Gigante

Immagine del primo numero dell’agenzia

 

Adista, una piccola agenzia di stampa ma di grande prestigio e qualità, compie quest’anno 50 anni. Un bel traguardo. Per cinquant’anni ha raccontato il cammino della Chiesa cattolica del post-Concilio. Uno strumento prezioso, non solo per chi fa informazione religiosa, per la comunità dei credenti.  La sua storia merita di essere conosciuta. Lo facciamo, in questa intervista, con Valerio Gigante, giornalista e Presidente della Cooperativa  che   gestisce la testata. Si perché Adista è un progetto “dal basso”, libero e indipendente. Ed è con questa prospettiva che racconta i fatti della vita sociale ed ecclesiale del Paese e del mondo. Neanche a dirlo, questa indipendenza  crea una sola dipendenza, quella dai lettori e abbonati. È un bell’esempio di giornalismo che va sostenuto.

 Valerio, quest’anno cadono diversi cinquantenari. Ed è anche il vostro: quello dell’agenzia “Adista”. Partiamo dalle origini: come nasce la vostra agenzia?

Nasce nel 1967 dall’iniziativa di un gruppo di cristiani progressisti che avevano un duplice obiettivo: scardinare il dogma dell’unità dei cattolici in politica, ossia dentro la Democrazia Cristiana, rivendicando il diritto di militare, come cristiani, anche a sinistra, in particolare nei partiti dell’area socialista e comunista; dall’altro, il tentativo di realizzare il mandato conciliare, impegnandosi per una Chiesa più aperta ed inclusiva, che riformasse se stessa ed il suo modo di rapportarsi con la realtà contemporanea.

Franco Leonori, cattolico vicino all’esperienza dei cattolici comunisti, è stato il vostro fondatore. Quali sono stati gli altri “Padri fondatori”?

Leonori veniva dal Partito della Sinistra Cristiana, un partito che aveva fatto la resistenza e che in gran parte, alla fine del 1945, era confluito all’interno del Partito Comunista Italiano, su impulso di un suo autorevolissimo dirigente, Franco Rodano. Leonori in particolare era però assai legato ad Adriano Ossicini, con cui aveva fatto la Resistenza qui a Roma, che all’interno della Sinistra Cristiana faceva parte di quell’area, minoritaria, che aveva scelto di non confluire dentro il Pci. Il principio della vicinanza e della collaborazione con i comunisti, ma da una posizione autonoma ed “indipendente” caratterizza la scelta di Ossicini e Leonori anche in merito alla fondazione di Adista: Ossicini subito dopo aver contribuito a far nascere la testata viene eletto parlamentare, come indipendente, proprio nelle liste del Pci. Negli anni successivi, a partire dal 1976, diversi altri credenti lo raggiungono caratterizzando il gruppo parlamentare della Sinistra Indipendente come una fucina in cui si sperimentava una inedita collaborazione tra cristiani (nel gruppo c’era infatti anche il pastore valdese Tullio Vinay) e comunisti, credenti e marxisti. Adista in quegli anni divenne il punto di riferimento di questa area politico culturale, mantenendo però sempre una sua forte autonomia. Che si accrebbe quando, alla fine degli anni ’70, Adista divenne una cooperativa, sviluppando nuove aree di impegno ed interesse grazie al contributo determinante di un altro personaggio centrale nella storia della testata: Giovanni Avena. Lui ad Adista era arrivato nel 1978, dall’impegno in una parrocchia palermitana contro la mafia, le connivenze tra la Chiesa e il potere democristiano, l’impegno per la chiusura dei manicomi (uno dei quali era nel territorio della sua parrocchia, una sorta di terra di nessuno dove avvenivano abusi di ogni tipo).

La vostra agenzia nasce nell’ambito del post-concilio, quel periodo ricco di iniziative nella Chiesa cattolica e nel mondo cattolico. Quella era “la primavera” nella Chiesa. Quale è stato il contributo di Adista?

L’aver messo in collegamento le tantissime realtà di base del nostro territorio, l’aver offerto loro le colonne di Adista in una fase (assai lunga, per la verità e ancora in parte operante) nella quale la Chiesa plurale, quella conciliare, l’anima cattolica conciliare non aveva diritto di parola e di espressione nei media e nei luoghi istituzionali della Chiesa cattolica. Adista ha poi informato su tutto ciò che si muoveva di nuovo nel cattolicesimo politico, nelle diocesi e nelle parrocchie di “frontiera”, accompagnando questa informazione ad una documentazione amplia sul dibattito teologico in Italia ed all’estero, dando ai lettori materiale spesso inedito e comunque pressocché introvabile su teologia della liberazione, teologia indigena, femminista, del pluralista, altermondialialista, asiatica, queer, ecc. ecc. Tutto ciò, insomma, che intellettuali e teologi hanno prodotto lontano dal Vaticano. Venendo spesso censurati e perseguitati a causa del loro impegno e del loro mancato “allineamento” alle posizioni espresse dalla gerarchia.

Non solo avete fatto conoscere la Chiesa di base, il “mondo” vicino alle CdB, ma avete aperto lo sguardo del cattolicesimo contemporaneo alla Chiesa dei poveri. In particolare alla realtà dell’America latina. Avete mai subito pressioni dalla Curia romana?

Pressioni dirette non in maniera particolare. Semmai qualche telefonata in cui ci veniva manifestato il dispiacere di questo o quell’ecclesiastico per ciò che avevamo scritto. Diverse pressioni affinché persone di spicco all’interno del mondo ecclesiale evitassero di avere rapporti con l’agenzia, di “macchiare” la loro immagine associando la loro firma a testi pubblicati sulle nostre pagine, oppure inviti agli inserzionisti di area cattolica che ci commissionavano un po’ di pubblicità a non dare soldi a un giornale come il nostro, accusato di non fare il bene della Chiesa e minare la sua unità.

Tra la gerarchia cattolica chi vi ha difeso?

Esplicitamente pochi, perché siamo stati oggettivamente una “pietra di scandalo” e un vescovo o un cardinale che difendesse apertis verbis Adista si metteva in una posizione piuttosto difficile. Chi è dentro l’istituzione, mi pare comprensibile, non può ufficialmente consentire con chi l’istituzione la contesta. Detto questo, tanti vescovi e cardinali sono stati e sono tuttora abbonati alla rivista, diversi l’hanno sostenuta anche con qualche contributo economico nei momenti difficili, non pochi hanno chiamato o sono venuti qui in redazione a discutere con noi questioni ecclesiali, teologiche o pastorali; in tanti comunque hanno apprezzato e ritenuto che il nostro lavoro fosse prezioso, seppure non sempre condivisibile, per mettere in circolazione idee e creare finalmente un’opinione pubblica anche dentro il mondo cattolico.

 Torniamo, per un attimo, alla politica. Per i vostri critici si trattava di un “collateralismo” opposto a quello ufficiale. Come rispondi a questa critica?

Che non c’è nulla di male ad essere o ad essere stati comunisti o socialisti, o dell’area della sinistra radicale. In nessun momento della sua vita Adista si è legata a carrozzoni politici, ha fatto l’ufficio stampa di qualche parlamentare o aspirante tale. Ha sostenuto sempre le ragioni della sinistra, di una sinistra plurale, ritenendo fondamentale il confronto ed il dialogo tra culture diverse che avevano però valori comuni; e soprattutto ha cercato di aiutare il cattolicesimo politico a dialogare con la sinistra, fossero i cattolici dei gruppi spontanei, della comunità di base, delle Acli della scelta socialista, i cattolici del fermento e quelli del cosiddetto “dissenso”, i cristiani per il socialismo, i cristiani nonviolenti e pacifisti, le femministe cattoliche, ecc.

 

Qual è stato lo scoop più importante della vostra agenzia?

Diversi, direi soprattutto legati alla pubblicazione di documenti riservati di qualche Congregazione Vaticana. Oppure la diffusione delle propositiones che concludevano i sinodi dei vescovi, che in passato erano sub secreto e che poi sono diventate pubbliche anche e soprattutto grazie al fatto che comunque Adista trovava il modo di averle e di diffonderle non per fare sensazionalismo, ma per garantire ai credenti il diritto di sapere come si era svolto il dibattito tra i loro vescovi e su quali punti si era o meno trovata la sintesi tra di loro.

 

Veniamo all’oggi. Quali saranno le future battaglie di ADISTA?

La prima è la sopravvivenza. L’editoria è in crisi. Quella che non è legata a sponsor politici ed ecclesiastici, gruppi finanziari o imprenditoriali lo è drammaticamente di più. Adista è una piccola cooperativa che vive del sostegno dei suoi abbonati, cui si aggiungeva un tempo il finanziamento pubblico all’editoria, oggi drasticamente ridotto. Il contributo dello Stato garantisce la pluralità dell’informazione. Siamo imprese, come tante altre, e stiamo sl mercato. Ma non vendiamo soprammobili, facciamo e vendiamo notizie. E se non vogliamo un’opinion pubblica informata ed orientata solo in un’unica direzione è necessario garantire che tante voci possano contribuire a formare coscienze critiche che conoscano e confrontino tante idee ed opinioni diverse.

Abbonarsi ad Adista è un atto di militanza per una Chiesa più aperta dentro una società più giusta e libera, ma è anche la scelta di presidiare i pochi strumenti di informazione “alternativa” ancora presenti oggi.

Se l’obiettivo della sopravvivenza sarà raggiunto, continueremo ad essere coscienza critica nella Chiesa e nella società, facendo quello che un giornale dovrebbe sempre fare, essere diffidente nei confronti del potere, di ogni potere, cercando di raccontare ciò che accade nelle pieghe della realtà. Per quanto ci riguarda, continuando a prediligere le strade polverose della storia percorse dai  tanti poveri cristi oppressi che vivono nella nostra realtà contemporanea, senza voce e senza diritti, piuttosto che frequentando le cattedrali che odorano di incenso. Fuori dal tempio, ma – speriamo – sempre dentro la storia.

Cyberbullismo, una piaga in crescita. Un libro per combatterlo

“Il 50% dei ragazzi che subisce fenomeni di cyberbullismo pensa di suicidarsi, mentre l’11% cerca di farlo”. A dirlo, in una recente intervista, a Cyber Affairs è la senatrice Elena Ferrara (Pd), prima firmataria del disegno di legge a prevenzione e contrasto del cyberbullismo che adesso tornerà la prossima settimana in discussione alla Camera, nella Commissioni riunite Giustizia e Affari Sociali, in quarta lettura. Si spera davvero di poter approvare il testo prima dell’estate. Una legge necessaria per poter contrastare efficacemente questa piaga. I dati, diffusi dalla Polizia Postale, sono impressionanti e fanno paura: lo scorso anno sono stati 235 i casi di cyberbullismo trattati dalla polizia postale, cioè le denunce in cui i minori sono risultati essere vittime di reato. In particolare, sono stati segnalati 88 casi di minacce, ingiurie e molestie; 70 furti d’identità digitale sui social network; 42 diffamazioni online; 27 diffusioni di materiale pedopornografico; 8 casi di stalking. Inoltre sono stati 31i minori denunciati all’autorità responsabile perché ritenuti responsabili di reati: 11 per diffamazione online; 10 per diffusione di materiale pedopornografico; 6 per minacce, ingiurie e molestie; 3 per furto d’identità digitale sui social network; 1 per stalking. Altro dato preoccupante è che, secondo un’indagine sull’hate speech dell’Università di Firenze, l’11% dei giovani approva gli insulti sui social. 

Come sta reagendo il nostro Paese?
Ne parliamo con tre esperti, autori del libro – -pubblicato dall’Editore Reverdito -“Cyberbullismo. Guida Completa per genitori, ragazzi e insegnanti”:  Mauro Berti (Sovrintendente Capo della Polizia di Stato, impiegato presso il Compartimento della Polizia Postale e delle Comunicazioni di Trento, è responsabile dell’Ufficio Indagini Pedofilia), Serena Valorzi (Psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale, esperta in dipendenze da comportamento, assertività e di impatto emotivo, cognitivo e relazionale delle tecnologie di comunicazione),  Michele Facci (Psicologo, Consulente Tecnico presso il Tribunale di Trento, esperto in pericoli e potenzialità di internet, autore di numerosi interventi sui principali media nazionali. http://www.michelefacci.com). Il libro sarà presentato, questa sera a Torino, nell’aula magna del Liceo classico “Cesare Alfieri”. E’ previsto un tour di presentazioni in altre città italiane.

Dottor Facci come è nata l’idea di questo “libro- manuale” ?
Il libro nasce dalla volontà di esprimere in un breve testo l’esperienza dei recenti anni di lavoro dei tre autori, con lo scopo di fornire aiuti concreti a genitori e docenti. Nel tempo infatti, abbiamo incontrato decine di migliaia di ragazzi in diverse scuole di tutto il territorio nazionale, ci pareva importante valorizzare questa esperienza e creare una piccola guida per genitori e insegnanti. Di fatto, dobbiamo ringraziare i ragazzi stessi che con le loro domande e il loro interesse ci hanno sempre motivati nel nostro lavoro quotidiano.

Nel volume ci sono nozioni e casi pratici, episodi reali con nomi di fantasia, a chi si rivolge il libro ?
Il libro è pensato per genitori, insegnanti ed educatori in generale. Anche i ragazzi però possono trarre vantaggio dalla lettura del testo in quanto vengono riportati episodi concreti e modalità pratiche per uscirne e per imparare a chiedere aiuto. Il libro non è solo pensato per favorire consapevolezza e fare quindi prevenzione, ma è anche un ottimo strumento di aiuto per le vittime e le loro famiglie.

Sovrintendente Berti . Il libro parla di cyberbullismo e di crimini informatici legati ai giovani. Lei ha voluto apportare la sua esperienza lavorativa nella stesura di questo libro. Quali sono i suoi consigli circa la vita on line dei nostri ragazzi ?
Studi, approfondimenti ed esperienze lavorative hanno la fortuna di incontrarsi nei contenuti del libro. Certo è che incontrando, sotto l’aspetto lavorativo, molti giovani che fanno parte della generazione dei nativi digitali, si ha il privilegio e l’opportunità di riconoscere con chiarezza quali sono i limiti dei nostri figli. Ecco allora che elementi quali la solitudine e l’impulsività digitale sono riconoscibili in giovani che non hanno avuto l’opportunità di vivere l’era pre – tecnologica. Il consiglio principale è quello di inserire i valori della vita ordinaria anche in quella on – line.

Nel libro si parla di OSINT. Di cosa si tratta ?
OSINT un acronimo inglese che sta per Open Source INTelligence. Si tratta dell’attività di ricerca e analisi delle informazioni tramite la consultazione di fonti di dominio pubblico presenti, sia nella vita ordinaria che in rete. È facilmente intuibile, proprio per la mole impressionante di dati che contiene il mondo di Internet, che quest’ultimo sia ormai diventato la primaria fonte di ricerca.

Dott.ssa Valorzi come è nata la sua collaborazione alla stesura del libro ? Quale è stato il suo apporto?
Mi occupo da più di 15 anni di dipendenze da comportamento e la pervasività di internet e l’impatto che ne consegue a livello emotivo, cognitivo e relazionale sono davanti ai miei occhi ogni volta che incontro nelle scuole o in studio persone, grandi o piccole, che soffrono o si interrogano su come migliorare la loro qualità di vita. Questo è il secondo lavoro congiunto con Mauro e Michele e, anche in questo caso, ci anima fortemente il desiderio di condividere le nostre esperienze con chi ha a cuore i nostri ragazzi e vuole agire con coscienza e consapevolezza profonde.

Perché il Cyberbullismo è più pericoloso di quello tradizionale?
I comportamenti vessatori del bullismo classico non erano così estesi. Potevi tornare a casa e sentirti protetto, ora internet espande e rende immortali commenti immagini, espone alla vergogna che sembra non avere soluzioni, di giorno e di notte, un mondo in cui molte relazioni si limitano alle emoticons. Se noi adulti e gli amici non interveniamo prontamente in aiuto, è facile che i ragazzi si sentano disperati e soli per sempre e, a volte pensino anche di scappare via per sempre.

Nel libro emergono i concetti di “vittima”, “persecutore” e “salvatore” . I genitori si rendono  conto di avere a che fare con fattispecie penali ?
Spesso i genitori non si rendono conto, non hanno più occhi, nel vortice delle nostre vite accelerate, per vedere il disagio. Parliamo spesso troppo poco con i nostri ragazzi chiusi nelle loro stanze. Ma altrettanto rischioso é vestire, impulsivamente, i panni dei salvatori perché, se si accettano soluzioni ipersemplificate di buoni e cattivi, si rischia di diventare altrettanto aggressivi (persecutori a propria volta). Fermiamoci, esercitiamo le nostre capacità di gestione emotiva, di comprensione, di intervento efficace e non punitivo, e daremo modo ai nostri ragazzi di fare altrettanto. Noi siamo, e rimaniamo, i loro modelli.

E’ in discussione alla Camera, in quarta lettura, un DDL sul Cyberbullismo. Ci sono, secondo voi, buone novità ?
Speriamo sia la volta buona. Nell’attuale stesura si è ritornati al testo originale, quello voluto fortemente dalla Senatrice Elena FERRARA. In questa versione il Cyberbullismo non viene trattato come una vera e propria fattispecie delittuosa fine a sé stessa, ma come un fenomeno al quale bisogna guardare con attenzione proponendo modelli educativi e di recupero. La stessa scuola viene investita con nuovi compiti formativi e di controllo.