Verso l’ultimo giro della legislatura. Intervista a Fabio Martini

(AUGUSTO CASASOLI/CONTRASTO)

 

Lingarbugliata politica italiana tra qualche giorno si prenderà una pausa. Al rientro incomincerà lultimo giro, assai complicato, di questa tormentata legislatura. E saranno mesi decisivi in vista delle prossime elezioni politiche. Con Fabio Martiniretroscenista e cronista parlamentare del quotidiano torinese La Stampa, abbiamo, in questa intervista, fatto unanalisi delle sfide politiche dei prossimi mesi.

 

Fabio Martini, per quanto è possibile, cerchiamo di immaginare le prossime sfide politiche che avremo alla ripresa dopo la pausa estiva. Incominciamo con Pisapia e il nuovo centrosinistra “allargato”. Pensi che la reazione scomposta dei leader di Articolo 1 (Bersani e Speranza) al famoso abbraccio “Pisapia-Boschi”, reazioni che ho trovato pretestuose , abbia affossato il progetto di “Insieme”? Io vedo due disegni politici inconciliabili…

 

<E’ vero, ci sono sensibilità diverse nell’area che vorrebbe unirsi attorno a Giuliano Pisapia, un’area che comprende personalità distanti tra loro e lungo un arco che va da Massimo D’Alema (nella sua recente versione “massimalista”), fino a Bruno Tabacci, erede orgoglioso della tradizione democristiana, passando per un “comunista emiliano” come Pierluigi Bersani.  Ma poiché queste diverse personalità e l’area nel suo complesso sono uniti dalla voglia di ridimensionare il Pd a guida Renzi, alla fine saranno ” costretti” ad unirsi. Dietro la leadership mite di Giuliano Pisapia>.

 

 

Veniamo a Romano Prodi. Per ora il Professore sposta la sua tenda dal PD. Ha scelto una posizione defilata. Pensi che possa diventare l’arma letale di Pisapia per scompaginare sia Articolo 1 che il PD. Per creare così il nuovo Ulivo? Un alleato, in questo disegno, potrebbe essere Franceschini?

 

<Romano Prodi, che sta vivendo una seconda giovinezza, lascerà la sua tenda ben distante da quella del Pd, se Renzi non correggerà sensibilmente la linea, se proseguirà nella sua guida solitaria ed escludente. In quel caso Prodi lascerà trasparire maggiormente la sua simpatia per Pisapia, a patto che nel frattempo l’ex sindaco di Milano sarà riuscito a federare l’area di sinistra su una linea alternativa al Pd, ma non da “Fronte popolare”. Se queste due premesse si realizzeranno Prodi potrebbe rappresentare, se non l’arma letale, almeno un valore molto aggiunto per “Insieme”. Quanto a Franceschini, si giocherà la sua partita dentro il Pd, cercando di ottenere (non sarà facile) quanti più parlamentari “garantiti” possibile. Riservandosi di giocare la partita vera: quella del dopo-elezioni. Quando si capiranno due cose: se Renzi sopravviverà ad una eventuale sconfitta elettorale e la durata della prossima legislatura>

 

 

Parliamo di Renzi e del PD. Il PD è un partito indebolito dalle recenti sconfitte amministrative. Un partito cui identità è SEMPre più debole. Insegue i temi  dei invece che dettare l’agenda politica. L’ultima battuta DI Renzi è emblematica: parliamo di coalizioni con quelli che vogliono abbassare le tasse…Sogna un  nuovo “Nazareno”?

<Renzi ha smesso di sognare quando aveva…otto anni! Nel senso che è un leader pragmatico, ma anche – per dirla con Arturo Parisi – “prigioniero del proprio io”. L’ipotesi di un accordo di governo Pd-Forza Italia per il dopo-elezioni pare sempre meno probabile. Silvio Berlusconi, 23 anni dopo la sua scesa in campo, è stato rimesso in gioco dagli errori altrui e si giocherà la partita assieme agli alleati di centrodestra>.

 

Se dovesse essere sconfitto, come è probabile, alle elezioni siciliane, pensi che per Matteo Renzi sia l’inizio della fine della sua parabola politica?

 

<Il contraccolpo di una eventuale sconfitta sarebbe pesante. Ma i suoi alleati interni (ex popolari, ex Ds) non lo costringeranno alla resa anticipata. Il vero “fixing” si misurerà alle Politiche. Con un Pd attorno al 20 per cento, Renzi rischia grosso, ma con una percentuale attorno al 25, per lui si profilerebbe una lunga vita>

 

 

Pensi che Renzi, per la sua salvezza, accentuerà il suo populismo?

<Grosso modo mancano ancora otto-nove mesi alle elezioni. E’ presto per capire se Renzi deciderà o meno di cambiare strategie comunicative>.

 

Veniamo al Centrodestra. Stando  ai sondaggi gode di buon salute “numerica”. Pensi che sia in buona salute anche politicamente ?

 

<La partita per il primato, che stavolta non si può sciogliere nei sinedri tra capi, si giocherà davanti agli elettori: chi prenderà più voti, tra Salvini e Berlusconi, darà le carte>.

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Chi potrà prendere in mano il centrodestra? Il Ticket Salvini-Parisi ? e Berlusconi?

<Prima del voto non accadrà nulla. Decideranno gli elettori>.

 

I 5stelle? Non vedo accresciuta la loro credibilità politica.Per te?

<Le intenzioni di voto restano alte, a dispetto della prova non brillantissima alla guida di Roma. La credibilità dei 5 Stelle non è cresciuta, neppure tra i loro elettori, ma chi li vuol votare, evidentemente non ritiene decisiva la prova di governo. Le motivazioni sono altre>.

 

E sulla legge elettorale ? Mattarella auspica un nuovo dialogo. Quante probabilità ci sono per una ripresa ?

 

<Si profila una nuova sceneggiata per “armonizzare” le normative attualmente previste per Camera e Senato e diverse tra loro. Sarà comunque una brutta pagina, inconcludente>.

Ultima domanda : Come sarà ricordata questa legislatura?

<Facciamola finire. Il consuntivo delle leggi potrebbe essere meno deprimente di quanto si creda. Quello politico, legato al destino dell’Italia, potrebbe essere invece assai più deprimente>.

Giovanni Bianchi, profeta del cristianesimo sociale italiano. Un ricordo

Giovanni Bianchi (AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO)

Giovanni Bianchi è stato Presidente Nazionale delle Acli dal 1987 al 1994. Nel 1994 entrò, su invito di Martinazzoli, nel PPI. Ne divenne poi Presidente del Consiglio Nazionale. Nella primavera 1995 è stato in prima linea, in qualità di presidente del partito, nella disputa contro Rocco Buttiglione che aveva schierato il Ppi nel centro-destra con Silvio Berlusconi. Bianchi ha guidato la protesta interna insieme con Gerardo Bianco. Seguì, poi, la militanza nella Margherita e nel PD. Autore di innumerevoli saggi sulla politica e di storia del Movimento operaio. I funerali si svolgeranno domani alle 16 nella Chiesa di Santo Stefano a Sesto San Giovanni. Ecco un ricordo personale.

 

Ciao Giovanni, carissimo amico fraterno. Ti avevo sentito un mese fa, avevamo parlato di Ruggiero Orfei. Nostro comune amico. Ti devo tanto Giovanni. Ti devo l’amore per le Acli, la conoscenza di Simone Weil, della teologia del lavoro di padre Chenula riscoperta del popolarismo di Luigi Sturzo,  di Giuseppe Dossetti, di Padre Turoldo e l’amore per l’ebraismo (indimenticabile era stato il tuo intervento nel giardino dei Giusti a Gerusalemme). Ti avevo conosciuto a Perugia all’incontro dei pacifisti europei. Era stato l’amico Gigi Bobba a farci conoscere. Ti devo l’amicizia con Pino Trotta e BepiTomai. Ti devo il primo lavoro dei miei anni romani, una ricerca sull’identità studentesca con il Bepi. L’ospitalità nella casa con Bepi e Pino. Quante risate. Una umanità stupenda la tua.. La tua ironia era micidiale. Assistere ai dialoghi di voi tre in cucina, quando tu rientravi dai tuoi impegni era davvero unspettacoIo. Il tuo cristianesimo carnale era radicato nella Paola di Dio. Gli incontri con Padre Pio Parisi. I dialoghi sulla laicità. Erano belle le tue Acli. Piene di pensiero politico.

Per te i cristiani che entrano in politica devono essere eticamente credibili, professionalmente competenti, politicamente abili. In quest’ordine!”E poi l’indimenticabile battaglia nel PPI (partito popolare italiano ) contro Buttiglione: i cattolici democratici non andranno mai a destra!

Tanti ricordi porto nel cuore e nella mente. Ricordo la tua sconvolgente meditazione al funerale di tua figlia SaraGiovanni sto piangendo…. Non ho parole! Vengo a sapere che oggi anche Carlo Grazioli se ne è andato. Un altro amico, conosciuto con Mino Martinazzoli. Il paradiso si arricchisce di persone bellissime. Noi continueremo il nostro pellegrinaggio con il cuore pieno di dolore, ma con la ragionevole speranza cristiana di incontrarli al termine della nostra fatica terrena.

“Penso che per il nuovo Centrosinistra il dialogo con il PD sia necessario”. Intervista a Bruno Tabacci

 Sono giorni complicati per la politica italiana. Giorni che fanno registrare riposizionamenti politici. Tra questi ci sono state le dimissioni del ministro centrista Costa.

Anche a nell’  ambito del Centrosinistra si registrano movimenti e azioni che dovrebbero puntare ad un ridisegno complessivo. Tra questi ci sono quelli di Giuliano Pisapia. Ieri l’ex Sindaco di Milano era a Roma dove ha incontrato diversi leader politici dell’area del centrosinistra. La famosa  “cabina di regia” di “Insieme” slitta ancora. Molto probabilmente la prossima settimana  il quadro sarà più chiaro.  Per parlare delle prospettive di “Insieme” e , più in generale, di un centrosinistra rinnovato (o allargato) abbiamo sentito uno dei leader politici che sta lavorando a questa prospettiva in stretta sintonia con Giuliano Pisapia: Bruno Tabacci.  Tabacci è deputato ed è leader di “Centro Democratico”.

Onorevole Tabacci, partiamo da una sua affermazione: per lei “Giuliano Pisapia è il nuovo Prodi”. Perché?

Diciamo che la sua capacità di tenere uniti, mettere insieme, di federare persone posizioni che vengono da culture diverse è stato sperimentata dalla primavera milanese del 2011 quando riuscì a conquistare il Comune di Milano e io, poi, mi trovai in giunta , nominato da lui (Pisapia) a fare l’Assessore al bilancio. Quindi questa sua capacità di mettere insieme, coagulare è dimostrata da un precedente che ha fatto storia e ,in Italia, ci sarebbe bisogno di una operazione analoga in questa fase.

Ora Prodi, che ha spostato la sua tenda ancora più distante dal PD, darà una mano a costruire il “centrosinistra allargato”. Non sono troppi due “federatori”?

Il contributo del Professor Prodi è determinante decisivo e lui tutte le volte che ne ha fatto cenno ha detto che non si sentiva in campo in prima persona ma che avrebbe a iutato cosa che poi lo ha fatto anche con i suoi interventi pubblici  e ha sempre tenuto questa linea, per questo noi gli siamo grati

“Insieme”,organismo che sta nascendo dopo la recente manifestazione di Piazza Santi Apostoli, a questo guardano, tra gli altri, anche due leader di Articolo 1 che pesano assai: D’Alema e Bersani. Come sappiamo questi leader hanno pensieri diversi, per meglio dire “sfumature” (chiamiamole così), sul destino del Centrosinistra italiano. Però con un punto in comune: l’avversione a Renzi. Pensa che il dialogo con il PD di Renzi sia impossibile?

Io penso che il dialogo con il PD sia necessario, ovviamente pensiamo ai milioni di elettori, alle migliaia di attivisti che hanno creduto e credono nel ruolo del Partito Democratico, questo a prescindere dal segretario, che di volta in volta è chiamato a rappresentarne la linea e le eventuali scelte conseguenti. Quindi non è una questione di pro o contro Renzi, noi vogliamo dialogare con il PD e con i suoi elettori e credo che questo sia possibile, e credo anche che “Articolo 1” debba togliersi dalla sindrome della scissione, hanno compiuto questa scelta ma adesso bisogna guardare avanti non indietro.

E’ superata la diffidenza di Articolo 1 nei vostri confronti?

Non so se ci sia mai stata diffidenza, ma se c’è stata da parte di Articolo 1 si è trattato di un errore di valutazione perché noi nasciamo proprio con l’esperienza delle primarie del 2012 e con le elezioni politiche del 2013 con “L’Italia Bene comune” che aveva tre soci che avevano sottoscritto quel manifesto, uno del PD, uno di SEL di Vendola, e poi c’eravamo noi. Quindi non credo ci sia posto per fraintendimenti, è bene però che Articolo 1 non creda di essere l’ombelico del mondo perché se fosse così sbaglierebbe.

Torniamo al Pd. Renzi dice: parliamo di programmi e non di coalizioni…

Lui è preso da questa sindrome della cavalcata solitaria, per cui presume di interpretare da solo gli umori del paese e quindi diffida dall’opzione della coalizione, io invece credo che coalizzare anche esperienze diverse sia fondamentale se si vuole poi dar vita a delle maggioranze che siano capaci di governare un Paese come il nostro.

Adesso che Alfano ha rotto con il PD, per confluire nel centrodestra, questo potrebbe aiutare una  possibile riorganizzazione del centrosinistra? In questo il suo gruppo potrebbe giocare un ruolo…

Alfano intanto diciamo che ha reagito a delle provocazioni che ha subito nelle settimane scorse, Renzi, infatti, ha tentato di liquidarlo anche in malo modo dopo che lui in tutta questa legislatura era stato leale, prima al governo Letta, poi al governo Renzi e, adesso, a quello                              Gentiloni. Io dico questo perché cerco di tenere alta la mia tensione di onestà intellettuale, quindi non mi va di dire una cosa solo perché conviene dirla, la dico se ne sono convinto. Ora, lui ha reagito (alle provocazioni), ed è chiaro che non essendoci spazio per azzardare una collaborazione elettorale di centro-sinistra per tantissime ragioni, ha dovuto riprendere il percorso che ben conosce, cioè il ritorno da Berlusconi. Questo lo si può guardare come lo si vuole, ma la politica è un po’ geometria, se non ci sono le condizioni per andare in una direzione e si decide di rimanere in campo si è costretti a scegliere l’altra. Il problema del centro-sinistra però si pone ugualmente, noi crediamo di poter dare un contributo e lo diamo, non è perché se Renzi non crede alla coalizione in questo momento noi cambiamo campo, siamo in questo campo e speriamo quindi di riportare il centro-sinistra almeno ad essere competitivo, perché così com’è c’è il rischio di non giocare nemmeno la partita.

Dopo la manifestazione di Santi Apostoli si è parlato di “cabina di regia”. Finora non siè visto nulla. Chi, secondo lei, dovrebbe farne parte?

Noi il primo di Luglio abbiamo fatto questa manifestazione tutti convinti, per la verità se ci fosse stata qualche bandiera rossa in meno era pure meglio, non perché le bandiere rosse debbano essere espunte, ma per il fatto che se si concorda che si fa una manifestazione senza bandiere per mettere in evidenza il fatto che si tratta di un cosa nuova allora bisogna rispettare le scelte che si hanno. Sul terreno concreto è chiaro che la cabina di regia è la conseguenza anche di scelte politiche che devono essere nette, ad esempio nei confronti del governo Gentiloni io non credo che si possa lavorare per andare ad una rottura tanto più che in questo momento Gentiloni si muove con forte autonomia anche rispetto al Partito Democratico, quindi si possono fare le cabine di regia se non hanno opinioni troppo distanti, se no si fa solo confusione.

A lei andrebbe bene Paolo Gentiloni come prossimo premier per tutto il centrosinistra?

Paolo Gentiloni ha dato di sé una buona prova, è dotato di grande equilibrio, di grande serietà e credo che potrebbe essere il riferimento per il governo della prossima legislatura.

Ha un consiglio dare a Matteo Renzi?

È difficile dare dei consigli a Matteo Renzi anche perché normalmente non li sollecita e quindi a una persona normale non viene nemmeno in mente di darglieli. Se sfoglio il suo ultimo libro vedo che aveva detto che avrebbe parlato del “nuovo” Renzi ma in realtà ha parlato molto del passato e ha riconfermato tutti gli strascichi che hanno accompagnato la sua  , per molti aspetti straordinaria, esperienza politica ma anche fatta da punture eccessive che hanno finito per lasciare lungo la strada un sacco di avversari che via via gli sono diventati nemici.

Un giudizio sulle dimissioni del Ministro Costa?

Il governo può andare avanti senza problemi. Le dimissioni di Costa sono un po’ ambigue perché, se aveva queste ragioni insuperabili, sarebbe stato più saggio se lo avesse fatto prima . Quindi il governo può benissimo andare avanti.

 

Che cos’è la normalità? Il mistero e il fascino di una parola

È appena uscito nelle librerie il secondo numero, del 2017, della rivista dell’Arel, l’agenzia di studi economici e legislativi fondata da Beniamino Andreatta. Il tema di questo numero è dedicato alla “Normalità”. Un tema affascinante, come spiega, nella sua presentazione, La Direttrice della Rivista Mariantonietta Colimberti. Il numero verrà presentato, nella tarda mattinata di domani nella sede dell’Arel, da Enrico Letta, Segretario Generale dell’Arel, e da Marco Minniti, Ministro degli interni.

PRESENTAZIONE
Chiedersi cosa sia la normalità e come essa si definisca nel nostro tempo significa porsi un interrogativo smisurato e forse senza risposta. Ma proprio la difficoltà di arrivare a una descrizione nitida della normalità è anche ciò che ne costituisce il fascino e la modernità. Perché se il concetto di normalità, come si sa, muta col mutare delle epoche, delle culture e persino delle latitudini – nelle due sezioni di questa rivista “Lontani da noi” e “Vicini a noi” se ne trovano documentati esempi – ci sono ambiti in cui la contemporaneità mette a durissima prova il tentativo di guardare e comprendere la “normalità”.
L’intervista di apertura al Presidente emerito Giorgio Napolitano è, in un certo senso, il racconto di una “non normalità”: quella di un’amicizia importante tra due giganti della politica, entrambi eccentrici nei rispettivi partiti – PCI e DC – pur nell’assoluta lealtà che sempre mantennero. Una stima profonda nata oltre dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino, diventata amicizia nel Primo Governo Prodi, quando Andreatta fu ministro della Difesa e Napolitano degli Interni, prima volta per un ex comunista. Napolitano ripercorre vicende significative della storia italiana e degli anni in cui nel nostro paese non era possibile l’alternanza a causa della conventio ad excludendum, ed esprime il suo pensiero sul futuro dell’Europa e della sinistra.
“Il mondo non è normale” è il titolo che provocatoriamente abbiamo dato alla prima sezione. Principale protagonista della “non normalità” è la tecnologia, che ha rivoluzionato le nostre vite e, insieme ad esse, la politica, l’economia, le istituzioni, la finanza. Bene ce lo spiegano, ciascuno per il proprio campo – che alla fine risultano contigui – Enrico Letta e Alessandro Pansa, mentre Ferdinando Salleo pone il problema ineludibile di cercare la strada per una nuova stabilità dopo la fine irreversibile di un “ordine” mondiale noto. Ma accanto a un panorama internazionale così problematico c’è anche una realtà che si è costruita attraverso progressive conquiste, che hanno inciso e incidono positivamente nella nostra quotidianità: le tante piccole e grandi “normalità” dell’Europa, il nostro comune paese, come ci rammenta Raffaella Cascioli. Chiude la sezione un ampio intervento di Marco Giudici sulla crisi della televisione, condannata anch’essa a una “non normalità”, a cercare cioè format estremi per reagire all’indebolimento dei suoi tradizionali punti di forza e, in definitiva, al pericolo del suo stesso declino.
Strettamente legata alla precedente è la seconda sezione, “La politica non è normale”, in cui studiosi della sinistra (Carlo Trigilia), della destra (Giovanni Orsina) e dei Cinquestelle (Marco Laudonio) approfondiscono rispettivamente le difficoltà di dare rappresentanza ai gruppi sociali più deboli, i mutamenti intervenuti nella/nelle identità della/delle destra/e, la comunicazione semplificata del M5S volta a costruire un’apparenza di “normalità”.
“Lontani da noi”, fisicamente e culturalmente, sono la Corea, anzi, le Coree e la comunità coreana che vive in Giappone (Pio d’Emilia), la Cina (Romeo Orlandi), l’India (Sauro Mezzetti), ma anche la Turchia, sebbene alle porte dell’Europa e alla ricerca di una nuova “normalità” (Elena Baracani). Lontana da noi è anche la vita difficile seppur ricca e piena di motivazione di un operatore umanitario in Iraq (Stefano Nanni).
“Vicini a noi” sono i nostri concittadini musulmani, spesso alle prese con una difficile normalità, sebbene il presidente dell’UCOII Izzedin Elzir abbia parole di apprezzamento per la “laicità” italiana; vicina a noi è una rifugiata curda (Hevi Dilara), da vent’anni nel nostro paese dopo essere sfuggita a persecuzioni e violenze in Turchia. Curiosa e particolare – in questa epoca in cui la corsa alla “visibilità” sembra inarrestabile – la “legge di Jante” dei Paesi Scandinavi, una sorta di inno alla normalità e all’understatement. Chiudono la sezione due analisi su un tema ormai centrale nelle nostre società, al di là del suo peso reale in termini quantitativi: il terrorismo (Francesco Raschi e Lorenzo Zambernardi), esaminato anche nei suoi effetti potenziali sulla legislazione di uno Stato di diritto (Carla Bassu).
L’intervista a Edoardo Boncinelli apre la sezione “Noi”: lo scienziato parla del mistero della vita e della normalità della morte, della sua convinzione che non ci sia sopravvivenza in alcuna forma, della solitudine e dell’infelicità esistenziale, così connaturate all’essere umano. Nella stessa sezione le riflessioni sulla normalità da due punti di vista forti e diversi: quello di un sacerdote e teologo (don Bruno Bignami) e quelle di un filosofo (Ezio Di Nucci).
“Gli spazi molteplici (e difformi) della normalità” iniziano con l’intervista impossibile di Federico Smidile a Erasmo da Rotterdam, un padre dell’idea di Europa (non a caso a lui si richiama il “Progetto Erasmus”), modernissimo con il suo Elogio della Follia. Emanuele Caroppo indaga sugli effetti che la presenza di un disabile produce nel rapporto tra fratelli; Antonello Colimberti ci introduce all’incontro con un personaggio poliedrico e poco conosciuto al grande pubblico, George Lapassade, che studiò e scrisse sulla dissociazione psicologica, mentre Alberto Biancardi ci parla di un grande scrittore argentino, Julio Cortázar, e del suo rapporto speciale con la normalità e col fantastico. Mazzino Montinari ci conduce attraverso un viaggio affascinante tra film in cui la narrazione fantastica sfida continuamente il reale e la normalità, in una simbologia che accende i riflettori sull’incomunicabilità e la disumanità. Si torna alla “normalità” con gli articoli di Francesco Gastaldi sulle trasformazioni territoriali e di Michele Bellini su un “normale” comportamento negativo, quello dell’evasione fiscale.
“In conclusione” le nostre consuete rubriche: citazioni dotte e meno dotte, e questa volta anche versi di illustri cantautori (Gianmarco Trevisi) e l’Osservatorio bibliografico di Pierluigi Mele, con recensioni sui volumi appena usciti di Giana Andreatta, Giovanni Bianconi, Marco Damilano, Ferruccio de Bortoli, Maurizio Molinari e Romano Prodi.
Infine, una notazione: di fronte a questa “normalità” inafferrabile l’apparente “ordine” di Piet Mondrian ci è sembrato la scelta più adatta per far “parlare” la nostra copertina.
(M.C.)

Conflitto o partecipazione? Un falso dilemma. Un testo di Pierre Carniti

Pubblichiamo per gentile concessione della testata on line “L’Etruria.it” questa riflessione di Pierre Carniti (ex Segretario generale della Cisl) sulla strategia di fondo che il movimento sindacale deve seguire per la tutela del lavoro. Un testo che fa chiarezza su  un dilemma, che ha diviso il movimento sindacale italiano, tra “conflitto o partecipazione.

 

 

 

Per il “lavoro che manca” ed il “lavoro che cambia” non esiste, allo stato, una politica concreta e nemmeno obiettivi condivisi.  Continua infatti una navigazione a vista tra gli scogli. Avventurosa e del tutto priva di carte nautiche. Travisante è anche il dilemma sostanzialmente nominalistico, fasullo e deviante, che tiene banco sui media e divide trasversalmente: pseudo esperti, commentatori e apparati sindacali. Schierati tra “conflitto” e “partecipazione”. Considerate alternative nelle strategie di tutela del lavoro. In realtà si tratta, appunto, di un  dilemma falso. E per diverse ragioni. Intanto perché nelle società democratiche e relativamente  strutturate, il “conflitto” non può essere esorcizzato. In quanto costituisce un fattore di progresso economico, sociale e politico. Con esclusione naturalmente del “conflitto” praticato senza la “convenzione di Ginevra”. Vale a dire il conflitto fine e sé stesso. Puramente distruttivo. Per intenderci, quello che esercita  una irresistibile attrazione tra molti dei così detti antagonisti: “black-block”, “no-global”, “centri sociali”. Tra i quali, appunto, non mancano mai provocatori e violenti.

Altrettanto infondato risulta il riferimento alla “partecipazione”. Ritenuta da molti una categoria salvifica. Ma del tutto,del tutto evanescente ed irrilevante, quando non accompagnata da strumenti, norme, diritti di intervento, in definitiva di co-decisione. In particolare nei e per i processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale e produttiva. A ben  vedere, requisiti del tutto estranei alla regolazione in atto dei rapporti di lavoro.

Naturalmente si può sempre cercare di cambiare il corso delle cose. A patto però  che si realizzino le indispensabili pre-condizioni. Per il cui conseguimento si richiede una consistente iniziativa  ed un impegno sindacale di lunga lena. Del quale purtroppo, almeno per ora, non si vede traccia. Non mancano quindi fondate ragioni di  preoccupazione. Anche per la buona ragione che il  conseguimento delle necessarie pre-condizioni è destinato e restare un pio desidero se non fosse supportato da un effettivo potere contrattuale.

Per correggere quindi le tendenze in atto è, innanzi tutto, necessario impegnarsi in una unificazione del mondo del lavoro. Oggi diviso e frammentato. Non solo tra lavoro stabile e precario, ma anche tra giovani ed anziani, tra impiego pubblico e privato, tra lavoro subordinato e pseudo  lavoro autonomo. In secondo luogo è indispensabile perseguire il monopolio della rappresentanza del lavoro. Scopo che diventa praticabile solo se accompagnato da un indispensabile recupero di tensione unitaria. Necessaria per restituire un ruolo essenziale al sindacalismo confederale. Altrimenti avviato alla irrilevanza. Basti pensare ai contratti nazionali. Arrivati ormai alla incredibile cifra di ottocento. Oltre la metà dei quali stipulati da “sindacati gialli”. Circostanza che, a parte ogni altra considerazione, è certamente una delle spiegazioni relative al deprezzamento ed alla svalutazione del lavoro. Infine c’è il problema, particolarmente grave, in Italia dell’occupazione. Il dato incontrovertibile e del quale si dovrebbe prendere atto, è che la coperta del lavoro disponibile è corta. Se copre gli ultracinquantenni, scopre i giovani. E viceversa. Occorre quindi che la contrattazione affronti, nei mille modi possibili, una ripartizione del lavoro disponibile.

Invece di perdersi in formule e chiacchiere inutili, impressione che si ha assistendo ai dibattiti della solita “compagnia di giro”, è richiesta, al contrario, capacità di mettere in campo un impegno vero, credibile. In grado di invertire la diffusa tendenza e la propensione all’individualismo e alla competizione. Che hanno soppiantato la solidarietà e l’eguaglianza. Producendo, tra l’altro, un intollerabile, continuo, aumento delle diseguaglianze.

Secondo Bauman queste sono alcuni fattori di quella che ha definito la “società liquida”. Dove domina la crisi dello Stato. Quale conseguenza del progressivo affievolimento della sua libertà decisionale. Di fronte allo strapotere delle multinazionali. In particolare della finanza. In tale quadro si è, mano a mano, indebolita una condizione che nel passato consentiva la ragionevole possibilità di affrontare e risolvere i problemi di coesione sociale. In particolare quelli relativi al lavoro. Per altro, con la crisi dello Stato, sono entrate in crisi le ideologie, così come i partiti e le grandi organizzazioni sociali. In sostanza le strutture che, con tutti i loro limiti, avevano costituito il tramite per una comunità di valori che permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa che ne interpretava i bisogni. Ma soprattutto la speranza di un possibile miglioramento.

Rispetto a pochi decenni fa il contesto è dunque profondamente cambiato. Tuttavia, questa constatazione non può essere assunta  come giustificazione di impotenza e paralisi. Occorre quindi promuovere i requisiti essenziali che consentano di affrontare le nuove ed impegnative sfide del nostro tempo.

Poiché nel sindacato, pur senza eliminare la mobilitazione e l’azione quando necessaria, sembrerebbe  prevalere la “partecipazione” quale orizzonte strategico, occorre sapere che tale scelta, per essere credibile, esige anche un radicale cambiamento delle modalità di decisione delle stesso sindacato.

In questa prospettiva, la trasparenza e l’etica sindacale restano questioni perennemente aperte. Come, d’altra parte, si richiede ad organizzazioni che gestiscono poteri, influenzano ruoli e carriere, governano patrimoni umani. E non solo. Ebbene, di norma, i correttivi alle trasgressioni, ai comportamenti devianti risiedono in un uso accurato e rigoroso delle regole democratiche e nel culto della rettitudine. Ma a poco rischiano di servire i correttivi se non accompagnati da obiettivi, contenuti, modalità di comportamenti che diano il senso all’azione collettiva ed intorno ai quali affermare una credibile etica della responsabilità.

A tale proposito meritano una riflessione, ed un profondo rinnovamento, le modalità di comunicazione. Per renderle idonee a coinvolgere effettivamente militanti, iscritti e non iscritti al sindacato. Si tratta di una esigenza ineludibile. Tenuto conto che sono praticamente esaurite le modalità originarie della comunicazione sindacale: i volantini, i giornaletti ciclostilati, le assemblee di piccoli o grandi gruppi di lavoratori. Inizialmente nelle parrocchie, o nelle Case del popolo. Successivamente, quando è stato conquistato il diritto di assemblea in fabbrica, nei reparti, o nelle mense aziendali. Non  è un mistero che queste modalità comunicative sono praticamente andate in disuso. Il circuito comunicativo si è infatti, poco a poco, ridotto a coinvolgere solo una parte di dirigenti ed operatori. Lasciando fuori  il grosso dei rappresentanti di base, degli iscritti, ma anche le centinaia di migliaia, per non dire milioni,  di lavoratori collocati fuori dal perimetro della rappresentatività sindacale.

Il punto quindi è che la “partecipazione”, per essere efficace nel rapporto tra le parti deve essere sorretta da una parallela e vera partecipazione interna all’organizzazione sindacale. Tale da assicurarle la forza e la credibilità necessaria. E’ arrivato perciò il momento, reso possibile anche dalle enormi potenzialità delle nuove tecnologie, di costruire un sistema di comunicazione e di interlocuzione interna che consenta al movimento sindacale confederale di ricostituire una condotta di relazioni personalizzate. Una struttura che permetta al singolo iscritto, ma anche al lavoratore senza rappresentanza, di dire la sua opinione. Sulle priorità, sulle cose da fare, sugli obiettivi da assumere. In buona sostanza, di poter valutare e condividere o meno le proposte che si vorrebbero portare avanti. Senza naturalmente alcuna concessione alla chimera, cara (stando a quel che si legge e si ascolta) a buon numero di politici. Confusi ed eccentrici. In particolare i devoti della “democrazia diretta”, concepita come sostitutiva delle forme di democrazia deliberativa e rappresentativa. Rifiutare queste pericolose e stravaganti bizzarrie non significa, ovviamente, cadere nell’errore opposto. Cioè quello di pensare che sia possibile esaurire la democrazia sindacale nell’autoreferenzialità degli apparati.

Se si intende  scongiurare questi opposti errori è necessario, assieme alla consapevolezza dei termini attuali della situazione, poter disporre di una piattaforma informatica. Per intenderci, una struttura hardware, cioè fisica. Che consenta di collegare centinaia di migliaia di componenti periferiche  (i computer, i telefonini) e coloro che li usano. E’ indispensabile inoltre un sistema operativo (software) che svolga la stessa funzione della prima. Ma in modalità digitale. E’ facile capire che si tratta di  un progetto piuttosto impegnativo. Il quale anche, per la sua necessaria consistenza, può essere realizzato solo con un impegno unitario di tutto il movimento sindacale confederale.

Chi ha qualche esperienza in grandi organizzazioni sociali non farà fatica a rendersi conto che un simile proposito possa suscitare la contrarietà, la reazione, la resistenza trasversale, di un certo  numero  di dirigenti sindacali. Che si faranno verosimilmente forti dell’argomentazione che non andrebbe fatto nulla che possa implicare il rischio di una limitazione al pluralismo culturale e politico. Esigenza sempre irrinunciabile. A maggior ragione quando si è impegnati ad attraversare una incerta fase di passaggio della storia.

Tuttavia costoro non dovrebbero ignorare due aspetti. Altrettanto essenziali. Il primo riguarda la cospicua quantità di risorse che devono essere impegnate per realizzare e far funzionare una simile piattaforma. La seconda è che di per sé la tecnologia è “neutra”.  Dipende sempre, naturalmente, dall’uso che ne viene fatto. Per altro le piattaforme di comunicazione ed interlocuzione, per loro natura, sono semplicemente strutture-ospiti, che abilitano la funzionalità di altri elementi, tanto del mondo fisico (telecamere, monitor, smartphone, ecc.), che del mondo digitale (documenti, dichiarazioni, giudizi, ecc.).

Comunque, una cosa è certa. Si possono sempre capire tutti i dubbi e le perplessità. Ma viene un momento, e questo momento per il sindacalismo confederale è indiscutibilmente venuto, che dubbi e perplessità rischiano di non essere altro che un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità.

L’auspicio quindi è che tutti e ciascuno riescano a fare propria l’esperienza che ci viene dalla vita. Non ci è forse capitato di trovarci alle prese con problemi che ci sembravano irrisolvibili, prima di rivelarsi invece del tutto solubili? Da quelle esperienze dobbiamo perciò sapere trarre la necessaria lezione: il rischio dell’impegno è sempre da preferire alla rassegnazione.

Pierre Carniti