
Il 16 aprile del 1988 veniva ucciso, barbaramente, dalle Brigate Rosse, nella sua casa a Forlì, il senatore Roberto Ruffilli . Ucciso perché impegnato nel processo di modernizzazione delle istituzioni democratiche. Per Ruffilli il cuore della riforma era portare al centro “il cittadino come arbitro” della vita politica. Per ricordare la sua figura, a trent’anni dalla morte, ci sono svolte a Forlì, alla presenza del Presidente della Repubblica, insieme alle autorità locali ed accademiche, le celebrazioni che si sono concluse al Teatro “Diego Fabbri”. Pubblichiamo di seguito i discorsi celebrativi del professor Pierangelo Schiera, storico delle istituzioni e amico di Ruffilll, e quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il “Focus” si conclude con un intervento di Roberto Ruffillli, del 1988, sulla necessità di una Riforma Costituzionale. Il testo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’ Agenzia AREL di Roma, è tratto dal volume pubblicato dall’agenzia Arel: PER UNA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. OMAGGIO A ROBERTO RUFFILLI. (A Cura di Mariantonietta Colimberti e Filippo Andreatta), Roma 2013).
PIERANGELO SCHIERA: “Riforma e pluralismo sono le parole chiave del testamento politico-costituzionale di Roberto Ruffilli”
Anche la Fondazione Roberto Ruffilli, signor Presidente della Repubblica, vuole renderle omaggio e ringraziarla per la partecipazione alla commemorazione del nostro gentile Eroe, il Professore e Senatore Roberto Ruffilli. La Fondazione fu ideata nel 1991 dal Sen. Leonardo Melandri, integrando l’opera dell’Associazione degli Amici di Roberto Ruffilli che era stata attivata il giorno stesso dei funerali dal Sen. Romano Baccarini, mia moglie Giuliana Nobili e molti altri Amici da tutta Italia, tra cui anche Lei, signor Presidente.
A trent’anni di distanza ci troviamo ancora qui, così in tanti, a ripetere le parole essenziali del testamento di Roberto: RIFORMA E PLURALISMO. Trent’anni sono una generazione. Questi ragazzi delle Superiori sentono cose, di Roberto Ruffilli, che potrebbero non interessarli più per niente. Qualcuno di loro – ho quattro nipoti e li conosco – starà giocando col suo apparecchietto, illuso di essere in rete col mondo. Eppure in una generazione sono cambiati – come forse non è mai accaduto nella storia in così breve tempo – i mezzi di comunicazione, ma i fini di convivenza sono restati quelli di prima. Ruffilli ha avuto il merito di coglierli e fissarli, con grande semplicità, sia come studioso e professore, sia come politico e riformatore.
La parola-chiave è RIFORMA e di ciò parlerà Massimo Cacciari fra poco. L’altra parola è SEMPLICITA’.
Nato a Forlì nel 1937, vissuto a pochi metri da qui – in una casa che la società Ser.in.ar (Servizi Integrati d’Area) ha gentilmente messo a disposizione della Fondazione Ruffilli come sua sede privilegiata – povero come molti di noi in quegli anni, su sponda cristiana in una città che romagnolosamente ha sempre vissuto con passione i confronti e anche i conflitti culturali e sociali, Roberto trovò nel mitico Oratorio San Luigi la scuola di vita in cui saldare insieme l’intelligenza e l’amore per gli altri. Allora ciò conduceva spesso i bravi studenti, da tutta Italia, all’Università Cattolica di Milano e in particolare al Collegio Augustinianum, vera e propria pepinière delle classi dirigenti cattoliche. Laureato con un grande maestro di storia e di scienza politica come Gianfranco Miglio, lo seguì negli studi, formandosi prevalentemente all’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica di Milano. Fu lì che lo conobbi anch’io, per poi percorrere insieme la carriera accademica: lui prima all’Università di Sassari, poi a Bologna.
Con l’avvento alla Segreteria della Democrazia Cristiana di Ciriaco De Mita, Ruffilli ne divenne consigliere per le riforme istituzionali, finché nel 1983 fu eletto Senatore, in un collegio romano. Era a casa nostra quando gli telefonò Nicola Mancino – allora capogruppo dei senatori democristiani – per offrirgli di sedere nella commissione per la scuola e l’università, gli rispose che dell’università ne aveva abbastanza e voleva dare il suo contributo agli affari costituzionali. Seguirono cinque anni intensissimi durante i quali – soprattutto nella Commissione Bozzi 1983-4 – portò avanti la linea duplice della “maggioranza” e dell’ “alternanza” come unico modo per ridare al governo la capacità di rispondere ai problemi di una società italiana in crescita. In particolare, ciò che sempre mi ha colpito, anche rispetto alla sua produzione scientifica, è stata la grande semplicità e chiarezza con cui ha saputo tradurre nella pratica le idee politiche raggiunte negli anni di studio. Al contrario di quanto spesso accade ai professori che diventano politici, la sua azione riformatrice fu più diretta e incisiva del suo pensiero scientifico.
Ci mancò veramente poco perché ce la facesse a creare una base comune per le riforme tra i due campi avversi e per questo fu ucciso. Come la sua guida Aldo Moro dieci anni prima e, sostanzialmente, per gli stessi motivi. Ma le riforme non vennero più, perché le Brigate Rosse – o chi per loro – ne avevano spento lo spirito.
Questo è ciò che resta a una generazione di distanza: cari ragazzi a voi tocca di riprendere in mano quel fuoco e provare a ravvivarlo, badando al vento naturalmente: da che parte tira e verso dove spinge. Perché i vostri sogni-bisogni non sono certamente più quelli di trenta o quarant’anni fa, ma la necessità della riforma è sempre viva e si può coniugare, in estrema semplicità, solo in termini di pluralismo. Se oggi siamo qui, signor Presidente ma anche ragazzi e ragazze mie, non è solo per condannare un crimine di trent’anni fa, ma sopra tutto per celebrare un atto di speranza e di fiducia nell’esempio di un libero pensatore e operatore cattolico qual è stato Roberto.
SERGIO MATTARELLA: “Ruffilli ha testimoniato la politica come impegno generoso verso gli altri”

Abbiamo ascoltato con grande attenzione e vero interesse quello che ci hanno detto il sindaco Drei, la studentessa Martina Derosa, il professor Schiera e il professor Cacciari con la consueta ricchezza argomentativa.
Desidero rivolgere, attraverso il Sindaco e tutti i presenti, un saluto alla città che oggi si raccoglie intorno al ricordo di Roberto Ruffilli e che abitualmente è piena di vivacità, di attività, di interessi, di grande ruolo nel nostro Paese.
Un saluto anche agli altri sindaci presenti, un ringraziamento per il lavoro e un incoraggiamento per il loro ruolo, a tutte le autorità presenti e al Presidente della Regione.
Vorrei soltanto sottolineare quanto ci è stato poc’anzi detto con tanta efficacia sulla figura di Roberto Ruffilli: è stato messo in evidenza il suo carattere mite, la sua grande passione per lo studio riversato in concreto nell’insegnamento e nell’impegno nella società e nella vita politica. Desidero anch’io darne personale testimonianza.
Ruffilli era una persona di cui era difficile non avvertire il fascino per l’acuta intelligenza, per la trasparenza della sua persona, per la grande, elegante ironia con cui si esprimeva sovente. Il suo impegno di riversare nel concreto – nell’insegnamento anzitutto, e poi nelle istituzioni e nelle varie attività e impegni nella società – è stato davvero esemplare, sempre ricordando la democrazia, la Costituzione e la cittadinanza intesa come patto tra cittadini e Stato.
Questo ricorda il titolo fortunato del suo libro con Piero Alberto Capotosti: ‘Il cittadino come arbitro’, definizione e contenuto di quel lavoro che si pone in perfetta continuità e corrispondenza con l’articolo 2 della nostra Costituzione, che dice che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili della persona; li riconosce perché la persona con i suoi diritti preesiste allo Stato. Ciò evoca bene l’esigenza di cittadinanza come patto tra cittadini e Stato, e la evoca in quanto Roberto Ruffilli indicava un concetto di cittadinanza e di convivenza nell’ambito della Costituzione che ricordasse il senso di comunità che lega tutti gli elementi della nostra Repubblica e tutti i concittadini della nostra Repubblica.
Anche da questo derivava la sua sottolineatura del valore del pluralismo della nostra democrazia. Secondo il disegno della nostra Costituzione, la vita politica non si esaurisce nell’attività del Parlamento, del governo, delle Regioni e dei Comuni. Tutto questo ne costituisce il punto di raccordo, ma si svolge in tante altre manifestazioni, luoghi e punti d’incontro: negli enti intermedi, nelle formazioni sociali, nelle libere aggregazioni di cittadini, nel mondo associativo. Tutto ciò concorre a perseguire e definire gli interessi generali del nostro Paese e quindi della sua vita politica ed esprime il dinamismo della nostra Repubblica e la vivacità della nostra democrazia.
Questo era al centro dell’insegnamento di Ruffilli e anche per questo vi era una sua grande attenzione al processo riformatore, all’esigenza di adeguare costantemente la realtà delle nostre istituzioni, del nostro stare insieme, ai mutamenti che nel corso del tempo costantemente, e sempre più velocemente, si realizzano e con cui ci confrontiamo.
Per questo è giusto aver ricordato qui pluralismo e riforma, come indicazioni dell’insegnamento di Roberto Ruffilli.
Vorrei concludere ricordando che l’insegnamento principale di Roberto Ruffilli lo ha dato con la sua vita, limpida, generosa, rivolta verso gli altri, contro la quale in quel giorno di trent’anni fa – e tuttora – rimane sconcertante il contrasto tra l’efferatezza belluina dei terroristi e la figura serena, aperta agli altri, disponibile di Roberto Ruffilli.
Per questo vorrei esprimere al Sindaco e alla città di Forlì l’apprezzamento per questa giornata di ricordo, perché Roberto Ruffilli costituisce un punto di quella tessitura di storia del nostro Paese tragica ma che ha seminato per la nostra convivenza, per il nostro stare insieme positivo.
Grazie signor Sindaco dell’invito per questa giornata e tanti auguri alla città.
(http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=811)
ROBERTO RUFFILLI: NUOVE SPINTE E VECCHI OSTACOLI
AL PROCESSO DI RIFORMA ISTITUZIONALE (1988).
- Gli ultimi mesi dell’87 consegnano al 1988 una significativa
ripresa di interesse per le riforme istituzionali. La scelta del
Pci per il rilievo centrale ed autonomo del riordino delle istituzioni
e gli incontri organizzati dal Psi con tutti i partiti per l’impostazione
del processo riformatore, gli interventi in materia dei
Presidenti delle due Camere e quelli del Presidente della Repubblica,
i convegni dei Gruppi parlamentari della Dc e la pronuncia
della sua Direzione, mettono in luce l’accrescersi, nella classe
politica, della convinzione della opportunità e dell’urgenza di
muoversi in tale direzione.
Trovano così conferma anche le indicazioni di questi ultimi
anni della Dc, documentate nelle pagine precedenti, circa la
necessità delle riforme e circa poi alcuni dati di metodo e di contenuto
relativamente alle stesse. In ogni caso, è sicuramente positivo
il diffondersi della consapevolezza che occorre accelerare il
coinvolgimento di tutte le forze politiche disponibili nella ricerca
degli accordi in Parlamento, per l’avvio e lo svolgimento di un
processo riformatore, graduale ed organico al tempo stesso.
L’accresciuto impegno per le riforme istituzionali continua,
peraltro, ad essere condizionato da una serie di ambiguità e di
contraddizioni, tradizionali e nuove, che rischiano di frenare e
comunque di travolgere il processo riformatore. È tornata alla
ribalta, in particolare, la contrapposizione tra «grandi riforme» e
«piccole riforme». Essa appare adesso legata al contrasto nel
giudizio sulla validità della Repubblica e della Costituzione in
vigore.
Così, da una parte, v’è chi sostiene la necessità di «grandi
semplificazioni», per superare il fallimento e comunque la crisi
endemica di una Repubblica e di una Costituzione stravolte dalla
partitocrazia ed incapaci ormai di adeguarsi allo sviluppo della
società italiana. Dall’altra parte, si sostiene invece l’opportuni-
tà di procedere solo a «piccoli aggiustamenti» nell’ambito della
attuazione della Costituzione e di una limitata razionalizzazione
degli equilibri politico-istituzionali con essa realizzati.
Nell’una e nell’altra posizione si fanno sentire calcoli a favore
del singolo partito, in vista del potenziamento del suo ruolo
attuale e dello smantellamento di quello altrui. Prevale, nel primo
caso, la messa in discussione della positività in sé dei partiti
maggiori, e di quelli organizzati di massa in ispecie, mentre è
dominante, nel secondo caso, la preoccupazione per la sopravvivenza
delle forze minori. Ma si fanno sentire anche mentalità e
motivazioni più propriamente culturali, legate al giudizio sulla
qualità e la quantità dello sviluppo democratico del Paese, pure
in rapporto alla storia precedente ed alle vicende degli altri Paesi
dell’Occidente.
A ben guardare, peraltro, l’una e l’altra posizione non fanno i
conti nel modo dovuto con i risultati ottenuti dalla Repubblica
democratica nell’ambito della Costituzione del 1948, e con i problemi
adesso aperti, proprio in relazione anche a taluni grandi
successi conseguiti da quest’ultima, oltre che dai limiti da essa
manifestati.
Bisogna tener presente che la Repubblica e la Costituzione
si debbono all’opera delle forze antifasciste. Queste si sono
impegnate nell’elaborazione di uno Stato democratico imperniato
sulla coniugazione di libertà ed eguaglianza. A tal fine
hanno fatto in modo di ridimensionare i contrasti, anche profondi,
fra loro esistenti sui modelli di democrazia e di partito,
lasciando peraltro zone d’ombra. In ogni caso, i partiti antifascisti
sono stati spinti ad assumere una specie di funzione di
«supplenza» per la promozione della vita democratica in una
società condizionata dalla mancanza di tradizioni consolidate
in tal senso, oltre che dal ventennio fascista, nonché poi da
squilibri e ritardi, antichi e nuovi. E in questo hanno trovato
legittimazione e consenso per il ruolo preponderante assunto
nella nostra democrazia.
Dopo 40 anni un dato è sicuro: ed è il radicamento di un
metodo democratico condiviso, con lo sviluppo della libertà e
della partecipazione popolare all’esercizio del potere. Si è avuta
una sempre maggiore riduzione della «diversità» mantenuta per
diverso tempo da talune forze politiche, rispetto al metodo
comune alle democrazie occidentali. Indubbiamente, per taluni
profili, si è rivelato non del tutto praticabile il progetto, fortemente
ideologizzato, di una «terza via» tra individualismo e collettivismo,
in chiave di democrazia post-liberale e post-socialista,
quale perseguito nella Costituzione con i principi ed il complesso
dei diritti e dei doveri. Ma ha trovato conferma decisiva la
scelta della crescita continua della libertà per il singolo e per le
formazioni sociali, con l’intervento riequilibratore dello Stato
apparato e dello Stato comunità, rispetto alle disuguaglianze ed
alle ingiustizie.
Così, l’altro dato sicuro, dopo 40 anni, è la maturazione di una
società democratica, con individui e gruppi sempre più capaci di
far valere diritti, tradizionali e nuovi, e con la diffusione di un
benessere sempre maggiore. Al che si lega l’affermazione di un
pluralismo sempre più articolato sotto il profilo politico, sociale
ed istituzionale, che rafforza le garanzie della libertà ed aumenta
lo spazio reale dell’autogoverno individuale e collettivo.
- Indubbiamente, non sono mancati e non mancano limiti e
contraddizioni, anche gravi, in uno sviluppo per tanti versi eccezionale.
Sono rimasti irrisolti i problemi di riequilibrio territoriale
e sociale e non ha trovato composizione sempre adeguata
l’esigenza di un equilibrio tra diritti e doveri, al pari di quella di
un’articolazione efficace del rapporto fra potere e responsabilità.
Ha preso corpo così un pluralismo oscillante, sia pur in
modo diverso nei vari campi, fra spinte centrifughe e spinte centripete,
con lo spazio per le prevaricazioni o anche solo per le
mediazioni favorevoli ai poteri più forti. A questo si è accompagnata
una crescente confusione di ruoli tra partiti ed istituzioni
statali e locali, oltre che tra queste ultime. Si è avuto un intervento
crescente dei primi nella gestione concreta delle attività
delle seconde, con una deresponsabilizzazione di ognuno e di
tutti per il rapporto fini-mezzi, risultata dirompente fra l’altro
per la spesa pubblica.
Più in generale i partiti, in presenza della difficoltà crescente
di aggregare consenso, sulla base di progetti ideologici sempre
meno rispondenti all’evoluzione della società industriale, hanno
puntato sul soddisfacimento del maggior numero possibile di
interessi settoriali e corporativi, dando spazio al clientelismo e
alla distribuzione a pioggia delle risorse. Ed hanno caricato del
compito di una mediazione continua in tale direzione il Governo,
il Parlamento e gli enti locali, riducendo la capacità decisionale
dei medesimi ed intaccando l’imparzialità ed il buon andamento
dell’intera Pubblica Amministrazione.
Di qui la insoddisfazione di settori sempre più ampi del paese
per l’inefficienza e la scorrettezza dei pubblici poteri, con la contestazione
poi del ruolo dei partiti e comunque della delega ad
essi affidata. Il che si intreccia con la più generale crisi di trasformazione
della rappresentanza politica nelle democrazie occidentali,
in relazione all’accrescersi della spinta alla partecipazione
diretta dei cittadini nella scelta di uomini e programmi di
governo.
Viene ad incidere anche da noi la pressione per il ridimensionamento
di una «democrazia mediata» dai partiti, a favore di
una «democrazia immediata», che aumenti la possibilità di decisione
effettiva da parte dei cittadini. Anche se poi non manca di
farsi sentire la propensione verso forme di «democrazia plebiscitaria
», con la disponibilità a forme di delega a personalità ed istituzioni
più o meno carismatiche. A queste si viene a chiedere, da
una parte, l’eliminazione di tutte le disfunzioni e, dall’altra, il
mantenimento dei vantaggi settoriali e corporativi.
Si precisa così una specie di circolo vizioso, che vede l’opinione
pubblica ed i cittadini contestare i limiti della delega concessa
ai partiti e l’uso incontrollato da parte loro della stessa, e puntare
al tempo stesso all’attribuzione di deleghe ancora più ampie a
soggetti politici istituzionali ancor meno controllabili. Tutto questo
comunque trae alimento anche da forme più o meno consapevoli
di rifiuto della «complessità» della democrazia pluralista,
dovute pure alla mancata responsabilizzazione dei cittadini nella
scelta di governanti da loro controllati effettivamente rispetto ai
risultati.
Di qui il favore per le prospettive di una grande semplificazione
della democrazia della rappresentanza e dei partiti, che
ponga termine all’occupazione ed alla presenza capillare di questi
nella vita dello Stato e della società. Ma tale prospettiva apre
la strada sostanzialmente all’alternarsi di «movimentismo» e di
«delega plebiscitaria». E l’effetto non può che essere il ridimensionamento
delle possibilità di concreta partecipazione, alla base
ed al vertice, offerte dal pluralismo sviluppatosi nella nostra
democrazia, pur in mezzo a tanti squilibri, nonché la riduzione
della possibilità di un controllo reciproco tra i poteri, a garanzia
di una limitazione degli stessi a favore dell’autorealizzazione
individuale e collettiva.
- La via da imboccare è, invece, quella di una riorganizzazione
del pluralismo politico, sociale ed istituzionale e di una razionalizzazione
della complessità raggiunta dalla democrazia anche
nell’Italia repubblicana. Si tratta di individuare nuovi equilibri
fra partiti, che hanno esaurito la funzione di supplenza per lo sviluppo
democratico e non riescono più a legittimare la posizione
egemone occupata, ed istituzioni e formazioni sociali, che debbono
veder riconosciuta la loro autonomia specifica, con il potenziamento
dei compiti loro propri. Si tratta di passare dall’equilibrio
in qualche modo «eccezionale» della fase di fondazione e
radicamento della democrazia repubblicana all’equilibrio per così
dire della «normalità» per quest’ultima. Il che impone di superare
il sistema dell’egemonia per qualsiasi soggetto politico e sociale e
di mettere ordine nelle interdipendenze fra gli attori della democrazia
pluralista. È questa la via per consolidare le conquiste raggiunte
con l’accordo sempre più generalizzato sul metodo della
libertà e della partecipazione, potenziando l’efficienza operativa e
la trasparenza di ogni potere rispetto ai cittadini.
A tal fine la Costituzione del 1948 mantiene una piena validità.
Essa presenta indicazioni puntuali e potenzialità da sviluppare
che costituiscono il miglior punto di riferimento per l’adeguamento
del sistema dei partiti e dei poteri alle grandi e complesse
trasformazioni verificatesi nella società italiana, in vista anche
dell’aggancio sempre più pieno alle regole comuni alle democrazie
europee ed anglosassoni.
Non è vero, come da qualche parte si sostiene, che la Costituzione
è nata vecchia ed è comunque invecchiata, già nella parte
dei principi, e soprattutto nella parte relativa all’organizzazione.
Può indubbiamente risultare datata la formulazione ideologica
di qualche principio; ma non è certo datata la scelta della ricerca
di equilibri sempre più validi e incisivi tra libertà ed eguaglianza,
fra diritti e doveri, fra sovranità popolare e pluralismo.
Innegabili risultano poi i limiti del disegno costituzionale in
ordine ad una forma di governo parlamentare non compiutamente
razionalizzata, per quanto riguarda la stabilità dell’Esecutivo.
Ma essi non sono il risultato di scelte astratte o arretrate;
sono invece l’effetto del mancato accordo pieno alla Costituente
tra le forze antifasciste sui «fondamenti della democrazia». In
ogni caso, il completamento di tale accordo rende possibile adesso
andare avanti nell’opera lasciata a metà dalla Costituente,
creando le condizioni, anche istituzionali, per il rapporto dialettico
fra un Esecutivo stabile ed un Legislativo saldo, sulla base di
un’applicazione adeguata del principio di maggioranza, reso efficace
dalla possibilità dell’alternanza.
Così come, più in generale, l’adesione generalizzata ad un
metodo democratico condiviso permette di cogliere le potenzialità
del principio della «sovranità popolare», per la realizzazione
di nuovi equilibri tra democrazia rappresentativa e democrazia
diretta e per l’affermazione del ruolo del cittadino come arbitro
ultimo della vita democratica, a partire dalla scelta della maggioranza
e del ricambio della stessa. E lo stesso vale per la potenzialità
del principio di una «divisione dei poteri», a livello statale
come a livello locale, sia in ordine alla puntualizzazione dei
compiti di ognuno ed all’aumento della capacità decisionale e
della funzionalità organizzativa, sia in ordine al dispiegamento
di un efficace sistema di «contrappesi» e di controlli reciproci.
Contemporaneamente diventa possibile andare avanti nello sviluppo
dell’equilibrio fra diritti e doveri dei cittadini fissato nella
Costituzione, in vista di una sempre migliore composizione dello
«Stato di diritto» con lo «Stato sociale», con il superamento dei
limiti della burocratizzazione ed il potenziamento del pubblico,
del privato e della solidarietà negli ambiti propri.
Su questa base la Dc continua a ribadire, anche adesso, la
tesi che le riforme istituzionali, se vogliono essere indirizzate
allo sviluppo delle conquiste della democrazia repubblicana, con
il superamento dei limiti emersi, debbono collegarsi ad un «perfezionamento
» della Costituzione del 1948, al di fuori della logica
della grande rottura, dagli esiti imprevedibili, come di quella
dei piccoli interventi conservativi ormai inefficaci. Ma per muoversi
in tale direzione il passaggio decisivo è costituito da scelte
acconce dei partiti e da comportamenti conseguenti degli stessi.
E qui, invece, viene alla ribalta anche ora un loro impigliarsi
nella contrapposizione tra «uso partigiano» ed «uso sistemico»
delle riforme istituzionali. Adesso, in particolare, viene ad operare
la tentazione di piegare le riforme alla precostituzione della
posizione più vantaggiosa per il singolo partito a detrimento
degli altri, in una situazione che vede ridursi lo spazio preponderante
contro le forze antisistema, senza che sussistano ancora
tutte le condizioni per l’alternanza tra maggioranza ed opposizione.
Si tende a fare delle riforme lo strumento per l’aumento
del «potere di coalizione» di qualche forza e della sua capacità di
condizionamento nei confronti dei possibili partners nell’ambito
di un «gioco a tutto campo» che ponga le altre forze in posizioni
subalterne. Si vuol fare delle riforme lo strumento per mantenere
il meccanismo della «centralità» inamovibile nella coalizione
di governo per il partito ed il polo ed in grado di risultare determinante
in ogni coalizione: ma senza tener conto, fra l’altro, del
fatto che essa sta perdendo peso, per il ridursi della «diversità»
delle forze antisistema.
Su tale piano non vi è possibilità di accordo fra i partiti per
riforme incisive, non essendo componibili i contrastanti interessi
al potenziamento del ruolo proprio di ognuno, al di fuori di
regole e limitazioni condivise. Resta solo lo spazio per colpi di
mano, da parte delle forze in grado di imporli, o per risposte
difensive, da parte di quelle messe maggiormente in difficoltà.
Ma il risultato più probabile rimane un nulla di fatto che verrebbe
a dar ragione a quanti ipotizzano una specie di impossibilità
strutturale dei partiti ad impegnarsi assieme in un adeguato processo
di riforma istituzionale.
- Esiste però un’altra strada che i partiti possono e debbono
imboccare. Ed è quella della ricerca degli accordi per riforme
che accrescano la funzionalità delle istituzioni statali e locali, sul
piano della capacità decisionale come su quello del controllo
reciproco. È questa la via per mettere in condizione le forze di
maggioranza e di opposizione di svolgere meglio i compiti loro
propri ed aumentare le proprie «chances» nella battaglia per la
guida del paese. Solo così si può arrivare ad organizzare la competizione
fra i partiti in una democrazia matura, collegando il
nostro multipartitismo alla costruzione di coalizioni alternative
e potenziando come arbitro il cittadino elettore.
In proposito, è emerso adesso un fatto abbastanza nuovo che
va valorizzato. Si tratta della disponibilità dichiarata da forze di
opposizione, ed anche di maggioranza, a darsi carico della funzionalità
delle istituzioni come di un bene in sé per lo Stato
democratico, al di là degli effetti immediati per le forze al governo
e per quelle escluse dal medesimo.
Per parte sua, la Democrazia Cristiana non può non sottolineare
con soddisfazione l’adesione all’indicazione in tal senso,
da essa fornita da tempo. E non può che impegnarsi per far
aumentare, in generale, la consapevolezza del porsi delle riforme
istituzionali come la via regia per i partiti che hanno costruito la
democrazia repubblicana, per legittimarsi come guida dell’adeguamento
della medesima alle profonde trasformazioni di una
società ormai in cambiamento continuo.
Passa di qui anche la realizzazione di quella «riforma dei partiti
» posta, con insistenza sempre maggiore, come un elemento
decisivo per lo sviluppo ulteriore della democrazia repubblicana,
secondo le linee di tendenza comuni alle democrazie dell’Occidente.
Ed in effetti la capacità dei partiti di accettare limitazioni
anche per loro, connesse a riforme che accrescano l’autonomia
specifica delle istituzioni ed il primato dei cittadini, costituisce il
modo migliore per essi per arrivare a comportamenti corretti e
trasparenti nella vita interna e nei rapporti reciproci, oltre che in
quelli con i pubblici poteri. D’altra parte, solo muovendosi per
primi in tale direzione, i partiti possono avere titoli e forza per
guidare la sempre più indispensabile «riregolamentazione» dei
poteri economici e sociali, che blocchi concentrazioni eccessive
ed anarchie dirompenti.
Tutto questo non richiede, come da qualche parte si sostiene,
una nuova «fase costituente», con la sospensione della normale
dialettica fra maggioranza ed opposizione. Richiede invece che
l’una e l’altra sappiano organizzare un confronto adeguato, dandosi
carico delle ragioni della maggioranza in quanto tale e dell’opposizione
in quanto tale, a prescindere dal ruolo occupato al
momento dalla singola forza.
Bisogna che tutti i partiti si misurino a vicenda sulla disponibilità
ad avviare una politica costituzionale di adeguamento continuo,
per così dire, delle istituzioni repubblicane alla società in
cambiamento, secondo la prassi delle liberaldemocrazie più solide.
Bisogna che essi verifichino reciprocamente la disponibilità
a prendere in considerazione congiuntamente le esigenze di
«governabilità» e di «democraticità», di decisionismo e di garantismo,
di una Repubblica che venga a funzionare sulla base del
principio di maggioranza, con la garanzia della possibilità dell’alternanza,
facendo del cittadino il perno della decisione ultima.
In ogni caso, è indispensabile che la discussione fra le forze
politiche sia serrata e limpida, in modo da mettere in condizione
l’opinione pubblica di valutare le intenzioni effettive di ogni partito,
contribuendo a bloccare quanti alzano cortine di fumo, o
per non cambiare nulla o per strumentalizzare le riforme a proprio
esclusivo vantaggio.
Indubbiamente, come mostrano esperienze recenti di altre
democrazie, la strada più semplice per dare positiva conclusione
al confronto tra le forze politiche sulle riforme sarebbe la presenza
di una maggioranza compatta e determinata, in grado di
misurarsi con l’opposizione e poi decidere. Solo che da noi, sia
per le modalità particolari della fondazione e del radicamento
della Repubblica, sia per la complessità della transizione dal
sistema del partito centrale, come perno dell’aggregazione della
coalizione di governo, al meccanismo delle coalizioni in grado di
alternarsi, rende necessario e comunque opportuno un rapporto
in qualche modo alla pari, in Parlamento, fra tutte le forze che si
riconoscono nella Costituzione repubblicana.
È abbastanza diffusa la tesi che pone in risalto una specie di
impossibilità strutturale delle democrazie, e di quelle parlamentari
e pluripartitiche in ispecie, a riformarsi ed a realizzare
mutamenti incisivi nei rapporti delle forze politiche con le istituzioni ed i cittadini.
Ma la tesi non corrisponde alla realtà, che ha
visto in questi ultimi anni democrazie europee ed extraeuropee
procedere, sotto la guida di maggioranze omogenee, anche se
pluripartitiche, ad incisive riforme pure del sistema elettorale.
Il caso italiano è reso peculiare dall’assenza di una maggioranza
di tal genere. Ed in effetti le riforme istituzionali sono
finalizzate da noi alla creazione delle condizioni per il consolidamento
della maggioranza di governo in sé, ed all’affermazione in
generale del principio di maggioranza nel funzionamento della
nostra democrazia.
Tutto questo, però, è reso difficile dal tentativo ricorrente di
finalizzare le riforme non all’avvento di una maggioranza solida
in quanto tale, ma all’affermazione di una specifica maggioranza,
attorno all’egemonia più o meno irreversibile del singolo partito
ed alla subalternità degli altri.
Ma se la logica rimane questa il confronto in Parlamento non
può portare molto lontano. Cresce così infatti lo spazio per il
prevalere dei veti incrociati come si è verificato a partire dalla
fase finale della Commissione Bozzi.
Bisogna impegnarsi in definitiva nella sfida per costringere le
forze politiche ad esplicitare la portata effettiva della apertura ad
una ricerca in comune di «compromessi ragionevoli» sulle priorità
e le scadenze che consentano di dare gradualità ed organicità
al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni
manovra strumentale e prevaricatrice.
Di qui la rinnovata insistenza, anche nell’ultima Direzione
della Democrazia Cristiana, sulla opportunità di prendere le
mosse dalle «riforme preliminari»: da quelle, cioè, in grado di
porre in essere lo strumento per l’accelerazione delle stesse. È
questo il caso anzitutto della riforma del Parlamento. Essa comporta
la modifica dei regolamenti e la revisione del bicameralismo
e l’avvio della delegificazione quale via per consolidare un
rapporto dialettico tra funzioni proprie della maggioranza e dell’opposizione,
ed in generale fra quelle di indirizzo e di controllo
del Legislativo e quelle di direzione e di coordinamento dell’Esecutivo,
mettendo in condizione tutti di dare il proprio apporto al
meglio per ulteriori grandi leggi di riforme.
Su tale base può poi essere messa in cantiere la riforma del
Governo, a partire dalla legge sulla Presidenza del Consiglio,
nonché la riforma delle autonomie locali, resa sempre urgente
anche da un aggravarsi della instabilità degli Esecutivi e delle
inefficienze e delle scorrettezze nella gestione, sempre meno tollerate
dai cittadini.
Con questa priorità, la Democrazia Cristiana intende porre il
problema di mettere in moto un riordinamento delle strutture del
potere politico-istituzionale che consenta di fuoriuscire dalla crisi
non solo di «funzionalità» ma anche di «legittimità» del medesimo.
È questo il modo migliore per perfezionare l’accordo sui fondamenti
della democrazia repubblicana tra i partiti che si sono
impegnati nella costruzione della stessa, così da poter poi avviare
a soluzione compiuta il problema della maggioranza legittimata a
governare sulla base della scelta diretta dei cittadini.
Va registrato adesso l’aumento delle convergenze su tale posizione
di forze di maggioranza e di opposizione. Resta però il
problema di passare dalle parole ai fatti. E per questo bisogna
accelerare la conclusione in Parlamento del lavoro comune di
impostazione del processo riformatore, valorizzando il ruolo dei
Presidenti delle AsseMblee, della Giunta del regolamento e della
Commissione di merito. Altrimenti ognuno dovrà assumersi le
proprie responsabilità di fronte ad un paese sempre più critico,
ed a ragione.
(Testo tratto dal volume pubblicato dall’agenzia Arel: PER UNA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. OMAGGIO A ROBERTO RUFFILLI. (A Cura di Mariantonietta Colimberti e Filippo Andreatta), Roma 2013, Pagg. 77-86).
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