Foto-grafie della notte della Repubblica: Il caso Moro e il 1978. Intervista a Sara Cordella

La ricca bibliografia sul “caso Moro”, ma non tutta è di qualità, si amplia con questo saggio, in uscita questa settimana nelle librerie, di Sara Cordella dal titolo emblematico: Foto-grafie del 1978. La grafologia racconta il sequestro di Aldo Moro, Il papato di Giovanni Paolo II, la presidenza Pertini (Prefazione di Fiore De Rienzo e Paolo Di Giannantonio-Ed.Associazione Artisti & Autori Italiani ed Europei, Vicenza 2018, pagg. 100). Un libro che ci offre, tra l’altro, una particolare prospettiva di lettura del Caso Moro. Ne parliamo, in questa intervista con l’autrice. Sara Cordella, veneziana, laureata in lettere è grafologo forense specializzata in Grafologia criminologica. Nella sua attività si è occupata di molti casi di cronaca “nera”.

Il tuo libro, su quell’anno drammatico, il 1978, può essere considerato come un panorama foto-grafico sulla notte della Repubblica. Una notte cupa…La tua scienza grafologica ci fa rivivere i personaggi dentro la loro interiorità. Parliamo in particolare della vicenda Moro, che occupa grande rilievo, come è giusto che sia, nel tuo libro . Partiamo, quindi, dal caso Moro. Tu analizzi alcune lettere di Moro, che sono tra le più importanti, e ci consegni anche un Moro, per certi versi, poco conosciuto. Un uomo lucidissimo, vigile, che sa usare la parola. Eppure di fronte alla parola di Moro il potere è afono…. è così?

I 55 giorni della prigionia vedono una produzione ricchissima di lettere, un caso unico in Italia. Questo ci permette di seguire passo passo il percorso che lo porta alla morte e di comprendere come in più modi e con diversi registri cerchi di offrire soluzioni per la sua liberazione. Aldo Moro cerca diversi interlocutori, anche lontani dal suo mondo di valori e dal suo pensiero, li invita a riflettere, li sprona, li implora di non far andare a termine questa ingiustizia che per lui è inaccettabile. Eppure trova totalmente stravolti tutti i rapporti e le distanze. Chi nel campo politico sarebbe dovuto stare al suo fianco e lottare per lui, fa cadere inascoltate le sue richieste, chi era prima lontano sembra appoggiare le sue proposte. Moro non riceverà mai risposta alle sue lettere ma è evidente che, anche nei silenzi, anche totalmente isolato, comprende tutto ciò che accade al di fuori di quei pochi metri quadri che sono la sua prigione. E comprende che non è una realtà che lo può né lo vuole aiutare nelle modalità in cui sperava.

Attraverso la grafia ricostruisci, con efficacia, le personalità di alcuni grandi protagonisti di quella vicenda: Andreotti, Cossiga, Craxi, Paolo VI.Fa impressione vedere la calibrazione della scrittura di Moro quando invia le lettere ai due uomini politici più importanti per il suo destino (Andreotti e Cossiga)…Anche in questo si nota la lucidità dello statista pugliese. Ce ne puoi parlare?

Moro era un politico nel vero senso della parola, come non ne esistono oggi. Quando scrive è esattamente come parlasse di fronte al destinatario e ne immaginasse risposte e reazioni. La scrittura si modifica in lui esattamente come si modificasse il tono di voce e quindi nelle lettere c’è un racconto nel racconto. Ne vediamo la concretezza, la volontà di non aggiungere fronzoli ma di arrivare subito al dunque quando scrive a Cossiga, il volere mantenere cautela e distanze con Craxi, il valorizzare il detto ma soprattutto il non detto ad Andreotti. E’ come se in ogni lettera riuscisse a creare un tutt’uno tra mittente e destinatario e le due anime convivessero in quelle righe.

La tua analisi della grafia consente di cogliere alcuni momenti della prigionia Moro. Ci sono stati momenti di speranza e di rabbia?

La rabbia in Moro è in quasi tutte le lettere percorsa dalla speranza. L’impotenza dell’uomo privato della sua libertà non annienta mai l’uomo propositivo e arrabbiato soprattutto con i “suoi”. Moro resta in tutte le lettere un uomo di fede… questo fino quasi alla fine, fino a quando comprende che nulla si può fare e che la sua storia è scritta.

Nella tua analisi della lettera di Moro a Craxi affermi che Moro non nutre molta fiducia in Bettino Craxi, eppure lo cerca…

Le grafie di Moro e Craxi non potrebbero essere più diverse. Craxi con una grafia ampia, quasi gonfiata, ci parla di una personalità straripante e abilissima nella comunicazione mediatica. Moro invece ha una grafia molto più piccola, controllata, parca. Eppure Moro non sbaglia a rivolgersi a quello che politicamente poteva essere il suo opposto. Certo, ne mantiene le debite distanze ma un uomo come lui sa procedere in punta di piedi. Anche cercando il sostegno di un partito considerato spregiudicato e di un rappresentante che, scopriremo negli anni successivi, ha saputo far del decisionismo la sua bandiera.

Ma è nelle lettere alla famiglia che esce fuori il Moro “nudo”,stiamo parlando degli ultimi giorni di vita. “Nella scrittura, piccola, ammorbidita, sembra quasi di sentire il suo tono di voce, sommesso, commosso, a tratti spezzato dall’immagine dei ricordi. Parla di futuro, lui che futuro non ne ha più. E tutto, in Moro, diventa piccolo e fragile: le mani di Noretta che condurranno la sua tenerezza, i suoi occhi che chissà come vedranno dopo”. Così scrivi nel libro sulle lettere alla famiglia. L’impressione che si ha, in particolare nell’ultima lettera è di trovarsi di fronte ad una “crocifissione”…anche la firma di Moro cambia…una spoliazione perfino estetica . E’ così?

Sì. L’immagine rende bene l’idea. Moro di fronte alla morte e alla consapevolezza della sua fine resta nudo e così la sua grafia. Nudo ma sempre un uomo vestito di dignità. Solo con i familiari riesce a parlare della sua fine e solo a loro affida i suoi ricordi e le sue immagini più intime. Il Moro che si sente abbandonato volge dapprima lo sguardo amorevole alla moglie e poi, cattolico fino alla fine, lo volge al cielo. “Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.

Come sappiamo nella vicenda Moro sono stati commessi tanto errori, troppi direi, di impreparazione strategica. Tra questi vi è la valutazione delle lettere. Qual è il tuo parere? 

Raccogliendo e studiando il materiale ho notato che una prima perizia grafologica fu disposta praticamente subito dopo  l’arrivo delle prime lettere. Mi sono chiesta come mai fosse così importante essere a conoscenza dello stato emotivo, di salute, di lucidità di Moro e ho compreso che lo strumento grafologico nel 1978 fu considerato uno strumento, l’unico utilizzabile, davvero potente. Questa urgenza, anche alla luce delle perizie disposte successivamente, io credo fosse correlata più al dopo che al durante. Credo che ai tempi ci fosse grandissima preoccupazione per come sarebbe uscito Moro, qualora fosse uscito vivo. E questo è stato un errore fondamentale perché non ci si è soffermati, come poi dirà Sciascia, sul vero significato delle lettere che, forse, oltre a offrire soluzioni per la liberazione, contenevano molto di più, forse anche la chiave per trovarlo.

Ultima   domanda: Il tuo libro, come detto all’inizio, è un libro sul 78. L’anno dell’omicidio Moro, di quello di Peppino Impastato, della morte di Paolo VI, e della vicenda dei due Papi. Un anno di svolta della storia italiana e non solo. Se tu dovessi analizzare, da grafologa, un segno grafico che caratterizza quell’ anno cosa scriveresti?

Il 78 è stato anno di grandissimi personaggi che hanno fatto della fermezza di carattere il loro stile di vita. E’ stato ancora un anno di martiri, un anno in cui storie drammaticamente buie hanno portato a luci che ancora oggi brillano. Se chiudo gli occhi posso immaginare il 78 come una grafia a tratti rigida e controllata, ben piantata sul rigo, con forti angoli di resistenza ma arricchiti di bellissimi chiaroscuri che hanno reso questo anno in bianco e nero, una nitida fotografia a colori. Ancora oggi attuale.

Cinque anni fa la storia dei “101” che boicottarono Prodi. Fabio Martini ricostruisce quei giorni che segnarono il Pd.

 

Per il PD si tratta di un vero e proprio stigma che ha segnato la sua esistenza. Un marchio pesante. Ci riferiamo alla vicenda dei 101 che boicottarono , 5 anni fa, l’elezione di Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica. Marco Damilano, direttore dell’Espresso, ne ha parlato, con un articolo, sulla Repubblica di questi ultimi giorni. Oggi Fabio Martini, con un post su Facebook, ricostruisce i fatti di quella vicenda. Continua a leggere

LA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. Per ricordare Roberto Ruffilli a 30 anni dalla morte. Testi di Sergio Mattarella, Pierangelo Schiera e Roberto Ruffilli

Il 16 aprile del 1988 veniva ucciso, barbaramente, dalle Brigate Rosse, nella sua casa a Forlì, il senatore Roberto Ruffilli . Ucciso perché impegnato nel processo di modernizzazione delle istituzioni democratiche. Per Ruffilli il cuore della riforma era portare al centro “il cittadino come arbitro” della vita politica.    Per ricordare la sua figura, a trent’anni dalla morte, ci sono svolte a Forlì, alla presenza del Presidente della Repubblica, insieme alle autorità locali ed accademiche, le celebrazioni che si sono concluse al Teatro “Diego Fabbri”. Pubblichiamo di seguito i discorsi celebrativi del professor Pierangelo Schiera, storico delle istituzioni e amico di Ruffilll, e quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il “Focus” si conclude con un intervento di Roberto Ruffillli, del 1988, sulla necessità di una Riforma Costituzionale. Il testo, che pubblichiamo per gentile concessione dell’ Agenzia AREL di Roma, è tratto dal volume pubblicato dall’agenzia Arel: PER UNA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. OMAGGIO A ROBERTO RUFFILLI.  (A Cura di Mariantonietta Colimberti e Filippo Andreatta), Roma 2013).

PIERANGELO SCHIERA: “Riforma e pluralismo sono le parole chiave del testamento politico-costituzionale di Roberto Ruffilli”

Anche la Fondazione Roberto Ruffilli, signor Presidente della Repubblica, vuole renderle omaggio e ringraziarla per la partecipazione alla commemorazione del nostro gentile Eroe, il Professore e Senatore Roberto Ruffilli. La Fondazione fu ideata nel 1991 dal Sen. Leonardo Melandri, integrando l’opera dell’Associazione degli Amici di Roberto Ruffilli che era stata attivata il giorno stesso dei funerali dal Sen. Romano Baccarini, mia moglie Giuliana Nobili e molti altri Amici da tutta Italia, tra cui anche Lei, signor Presidente.

A trent’anni di distanza ci troviamo ancora qui, così in tanti, a ripetere le parole essenziali del testamento di Roberto: RIFORMA E PLURALISMO. Trent’anni sono una generazione. Questi ragazzi delle Superiori sentono cose, di Roberto Ruffilli, che potrebbero non interessarli più per niente. Qualcuno di loro – ho quattro nipoti e li conosco – starà giocando col suo apparecchietto, illuso di essere in rete col mondo. Eppure  in una generazione sono cambiati – come forse non è mai accaduto nella storia in così breve tempo – i mezzi di comunicazione, ma i fini di convivenza sono restati quelli di prima. Ruffilli ha avuto il merito di coglierli e fissarli, con grande semplicità, sia come studioso e professore, sia come politico e riformatore.

La parola-chiave è RIFORMA e di ciò parlerà Massimo Cacciari fra poco. L’altra parola è SEMPLICITA’.

Nato a Forlì nel 1937, vissuto a pochi metri da qui – in una casa che la società Ser.in.ar (Servizi Integrati d’Area) ha gentilmente messo a disposizione della Fondazione Ruffilli come sua sede privilegiata – povero come molti di noi in quegli anni, su sponda cristiana in una città che romagnolosamente  ha sempre vissuto con passione i confronti e anche i conflitti culturali e sociali, Roberto trovò nel mitico Oratorio San Luigi la scuola di vita in cui saldare insieme l’intelligenza e l’amore per gli altri.  Allora ciò conduceva spesso i bravi studenti, da tutta Italia, all’Università Cattolica di Milano e in particolare al Collegio Augustinianum, vera e propria pepinière delle classi dirigenti cattoliche. Laureato con un grande maestro di storia e di scienza politica come Gianfranco Miglio, lo seguì negli studi, formandosi prevalentemente all’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica di Milano. Fu lì che lo conobbi anch’io, per poi percorrere insieme la carriera accademica: lui prima all’Università di Sassari, poi a Bologna.

Con l’avvento alla Segreteria della Democrazia Cristiana di Ciriaco De Mita, Ruffilli ne divenne consigliere per le riforme istituzionali, finché nel 1983 fu eletto Senatore, in un collegio romano. Era a casa nostra quando gli telefonò Nicola Mancino – allora capogruppo dei senatori democristiani – per offrirgli di sedere nella commissione per la scuola e l’università, gli rispose che dell’università ne aveva abbastanza e voleva dare il suo contributo agli affari costituzionali. Seguirono cinque anni intensissimi durante i quali – soprattutto nella Commissione Bozzi 1983-4 – portò avanti la linea duplice della “maggioranza” e dell’ “alternanza” come unico modo per ridare al governo la capacità di rispondere ai problemi di una società italiana in crescita. In particolare, ciò che sempre mi ha colpito, anche rispetto alla sua produzione scientifica, è stata la grande semplicità e chiarezza con cui ha saputo tradurre nella pratica le idee politiche raggiunte negli anni di studio. Al contrario di quanto spesso accade ai professori che diventano politici, la sua azione riformatrice fu più diretta e incisiva del suo pensiero scientifico.

Ci mancò veramente poco perché ce la facesse a creare una base comune per le riforme tra i due campi avversi e per questo fu ucciso. Come la sua guida Aldo Moro dieci anni prima e, sostanzialmente, per gli stessi motivi. Ma le riforme non vennero più, perché le Brigate Rosse – o chi per loro – ne avevano spento lo spirito.

Questo è ciò che resta a una generazione di distanza: cari ragazzi a voi tocca di riprendere in mano quel fuoco e provare a ravvivarlo, badando al vento naturalmente: da che parte tira e verso dove spinge. Perché i vostri sogni-bisogni non sono certamente più quelli di trenta o quarant’anni fa, ma la necessità della riforma è sempre viva e si può coniugare, in estrema semplicità,  solo in termini di pluralismo. Se oggi siamo qui, signor Presidente ma anche ragazzi e ragazze mie, non è solo per condannare un crimine di trent’anni fa, ma sopra tutto per celebrare un atto di speranza e di fiducia nell’esempio di un libero pensatore e operatore cattolico qual è stato Roberto.

SERGIO MATTARELLA: “Ruffilli ha testimoniato la politica come impegno generoso verso gli altri”

Abbiamo ascoltato con grande attenzione e vero interesse quello che ci hanno detto il sindaco Drei, la studentessa Martina Derosa, il professor Schiera e il professor Cacciari con la consueta ricchezza argomentativa.

Desidero rivolgere, attraverso il Sindaco e tutti i presenti, un saluto alla città che oggi si raccoglie intorno al ricordo di Roberto Ruffilli e che abitualmente è piena di vivacità, di attività, di interessi, di grande ruolo nel nostro Paese.

Un saluto anche agli altri sindaci presenti, un ringraziamento per il lavoro e un incoraggiamento per il loro ruolo, a tutte le autorità presenti e al Presidente della Regione.

Vorrei soltanto sottolineare quanto ci è stato poc’anzi detto con tanta efficacia sulla figura di Roberto Ruffilli: è stato messo in evidenza il suo carattere mite, la sua grande passione per lo studio riversato in concreto nell’insegnamento e nell’impegno nella società e nella vita politica. Desidero anch’io darne personale testimonianza.

Ruffilli era una persona di cui era difficile non avvertire il fascino per l’acuta intelligenza, per la trasparenza della sua persona, per la grande, elegante ironia con cui si esprimeva sovente. Il suo impegno di riversare nel concreto – nell’insegnamento anzitutto, e poi nelle istituzioni e nelle varie attività e impegni nella società – è stato davvero esemplare, sempre ricordando la democrazia, la Costituzione e la cittadinanza intesa come patto tra cittadini e Stato.

Questo ricorda il titolo fortunato del suo libro con Piero Alberto Capotosti: ‘Il cittadino come arbitro’, definizione e contenuto di quel lavoro che si pone in perfetta continuità e corrispondenza con l’articolo 2 della nostra Costituzione, che dice che la Repubblica riconosce i diritti inviolabili della persona; li riconosce perché la persona con i suoi diritti preesiste allo Stato. Ciò evoca bene l’esigenza di cittadinanza come patto tra cittadini e Stato, e la evoca in quanto Roberto Ruffilli indicava un concetto di cittadinanza e di convivenza nell’ambito della Costituzione che ricordasse il senso di comunità che lega tutti gli elementi della nostra Repubblica e tutti i concittadini della nostra Repubblica.

Anche da questo derivava la sua sottolineatura del valore del pluralismo della nostra democrazia. Secondo il disegno della nostra Costituzione, la vita politica non si esaurisce nell’attività del Parlamento, del governo, delle Regioni e dei Comuni. Tutto questo ne costituisce il punto di raccordo, ma si svolge in tante altre manifestazioni, luoghi e punti d’incontro: negli enti intermedi, nelle formazioni sociali, nelle libere aggregazioni di cittadini, nel mondo associativo. Tutto ciò concorre a perseguire e definire gli interessi generali del nostro Paese e quindi della sua vita politica ed esprime il dinamismo della nostra Repubblica e la vivacità della nostra democrazia.

Questo era al centro dell’insegnamento di Ruffilli e anche per questo vi era una sua grande attenzione al processo riformatore, all’esigenza di adeguare costantemente la realtà delle nostre istituzioni, del nostro stare insieme, ai mutamenti che nel corso del tempo costantemente, e sempre più velocemente, si realizzano e con cui ci confrontiamo.

Per questo è giusto aver ricordato qui pluralismo e riforma, come indicazioni dell’insegnamento di Roberto Ruffilli.

Vorrei concludere ricordando che l’insegnamento principale di Roberto Ruffilli lo ha dato con la sua vita, limpida, generosa, rivolta verso gli altri, contro la quale in quel giorno di trent’anni fa – e tuttora – rimane sconcertante il contrasto tra l’efferatezza belluina dei terroristi e la figura serena, aperta agli altri, disponibile di Roberto Ruffilli.

Per questo vorrei esprimere al Sindaco e alla città di Forlì l’apprezzamento per questa giornata di ricordo, perché Roberto Ruffilli costituisce un punto di quella tessitura di storia del nostro Paese tragica ma che ha seminato per la nostra convivenza, per il nostro stare insieme positivo.

Grazie signor Sindaco dell’invito per questa giornata e tanti auguri alla città.

(http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=811)

ROBERTO RUFFILLI: NUOVE SPINTE E VECCHI OSTACOLI

AL PROCESSO DI RIFORMA ISTITUZIONALE (1988).

 

  1. Gli ultimi mesi dell’87 consegnano al 1988 una significativa

ripresa di interesse per le riforme istituzionali. La scelta del

Pci per il rilievo centrale ed autonomo del riordino delle istituzioni

e gli incontri organizzati dal Psi con tutti i partiti per l’impostazione

del processo riformatore, gli interventi in materia dei

Presidenti delle due Camere e quelli del Presidente della Repubblica,

i convegni dei Gruppi parlamentari della Dc e la pronuncia

della sua Direzione, mettono in luce l’accrescersi, nella classe

politica, della convinzione della opportunità e dell’urgenza di

muoversi in tale direzione.

Trovano così conferma anche le indicazioni di questi ultimi

anni della Dc, documentate nelle pagine precedenti, circa la

necessità delle riforme e circa poi alcuni dati di metodo e di contenuto

relativamente alle stesse. In ogni caso, è sicuramente positivo

il diffondersi della consapevolezza che occorre accelerare il

coinvolgimento di tutte le forze politiche disponibili nella ricerca

degli accordi in Parlamento, per l’avvio e lo svolgimento di un

processo riformatore, graduale ed organico al tempo stesso.

L’accresciuto impegno per le riforme istituzionali continua,

peraltro, ad essere condizionato da una serie di ambiguità e di

contraddizioni, tradizionali e nuove, che rischiano di frenare e

comunque di travolgere il processo riformatore. È tornata alla

ribalta, in particolare, la contrapposizione tra «grandi riforme» e

«piccole riforme». Essa appare adesso legata al contrasto nel

giudizio sulla validità della Repubblica e della Costituzione in

vigore.

Così, da una parte, v’è chi sostiene la necessità di «grandi

semplificazioni», per superare il fallimento e comunque la crisi

endemica di una Repubblica e di una Costituzione stravolte dalla

partitocrazia ed incapaci ormai di adeguarsi allo sviluppo della

società italiana. Dall’altra parte, si sostiene invece l’opportuni-

tà di procedere solo a «piccoli aggiustamenti» nell’ambito della

attuazione della Costituzione e di una limitata razionalizzazione

degli equilibri politico-istituzionali con essa realizzati.

Nell’una e nell’altra posizione si fanno sentire calcoli a favore

del singolo partito, in vista del potenziamento del suo ruolo

attuale e dello smantellamento di quello altrui. Prevale, nel primo

caso, la messa in discussione della positività in sé dei partiti

maggiori, e di quelli organizzati di massa in ispecie, mentre è

dominante, nel secondo caso, la preoccupazione per la sopravvivenza

delle forze minori. Ma si fanno sentire anche mentalità e

motivazioni più propriamente culturali, legate al giudizio sulla

qualità e la quantità dello sviluppo democratico del Paese, pure

in rapporto alla storia precedente ed alle vicende degli altri Paesi

dell’Occidente.

A ben guardare, peraltro, l’una e l’altra posizione non fanno i

conti nel modo dovuto con i risultati ottenuti dalla Repubblica

democratica nell’ambito della Costituzione del 1948, e con i problemi

adesso aperti, proprio in relazione anche a taluni grandi

successi conseguiti da quest’ultima, oltre che dai limiti da essa

manifestati.

Bisogna tener presente che la Repubblica e la Costituzione

si debbono all’opera delle forze antifasciste. Queste si sono

impegnate nell’elaborazione di uno Stato democratico imperniato

sulla coniugazione di libertà ed eguaglianza. A tal fine

hanno fatto in modo di ridimensionare i contrasti, anche profondi,

fra loro esistenti sui modelli di democrazia e di partito,

lasciando peraltro zone d’ombra. In ogni caso, i partiti antifascisti

sono stati spinti ad assumere una specie di funzione di

«supplenza» per la promozione della vita democratica in una

società condizionata dalla mancanza di tradizioni consolidate

in tal senso, oltre che dal ventennio fascista, nonché poi da

squilibri e ritardi, antichi e nuovi. E in questo hanno trovato

legittimazione e consenso per il ruolo preponderante assunto

nella nostra democrazia.

Dopo 40 anni un dato è sicuro: ed è il radicamento di un

metodo democratico condiviso, con lo sviluppo della libertà e

della partecipazione popolare all’esercizio del potere. Si è avuta

una sempre maggiore riduzione della «diversità» mantenuta per

diverso tempo da talune forze politiche, rispetto al metodo

comune alle democrazie occidentali. Indubbiamente, per taluni

profili, si è rivelato non del tutto praticabile il progetto, fortemente

ideologizzato, di una «terza via» tra individualismo e collettivismo,

in chiave di democrazia post-liberale e post-socialista,

quale perseguito nella Costituzione con i principi ed il complesso

dei diritti e dei doveri. Ma ha trovato conferma decisiva la

scelta della crescita continua della libertà per il singolo e per le

formazioni sociali, con l’intervento riequilibratore dello Stato

apparato e dello Stato comunità, rispetto alle disuguaglianze ed

alle ingiustizie.

Così, l’altro dato sicuro, dopo 40 anni, è la maturazione di una

società democratica, con individui e gruppi sempre più capaci di

far valere diritti, tradizionali e nuovi, e con la diffusione di un

benessere sempre maggiore. Al che si lega l’affermazione di un

pluralismo sempre più articolato sotto il profilo politico, sociale

ed istituzionale, che rafforza le garanzie della libertà ed aumenta

lo spazio reale dell’autogoverno individuale e collettivo.

 

  1. Indubbiamente, non sono mancati e non mancano limiti e

contraddizioni, anche gravi, in uno sviluppo per tanti versi eccezionale.

Sono rimasti irrisolti i problemi di riequilibrio territoriale

e sociale e non ha trovato composizione sempre adeguata

l’esigenza di un equilibrio tra diritti e doveri, al pari di quella di

un’articolazione efficace del rapporto fra potere e responsabilità.

Ha preso corpo così un pluralismo oscillante, sia pur in

modo diverso nei vari campi, fra spinte centrifughe e spinte centripete,

con lo spazio per le prevaricazioni o anche solo per le

mediazioni favorevoli ai poteri più forti. A questo si è accompagnata

una crescente confusione di ruoli tra partiti ed istituzioni

statali e locali, oltre che tra queste ultime. Si è avuto un intervento

crescente dei primi nella gestione concreta delle attività

delle seconde, con una deresponsabilizzazione di ognuno e di

tutti per il rapporto fini-mezzi, risultata dirompente fra l’altro

per la spesa pubblica.

Più in generale i partiti, in presenza della difficoltà crescente

di aggregare consenso, sulla base di progetti ideologici sempre

meno rispondenti all’evoluzione della società industriale, hanno

puntato sul soddisfacimento del maggior numero possibile di

interessi settoriali e corporativi, dando spazio al clientelismo e

alla distribuzione a pioggia delle risorse. Ed hanno caricato del

compito di una mediazione continua in tale direzione il Governo,

il Parlamento e gli enti locali, riducendo la capacità decisionale

dei medesimi ed intaccando l’imparzialità ed il buon andamento

dell’intera Pubblica Amministrazione.

Di qui la insoddisfazione di settori sempre più ampi del paese

per l’inefficienza e la scorrettezza dei pubblici poteri, con la contestazione

poi del ruolo dei partiti e comunque della delega ad

essi affidata. Il che si intreccia con la più generale crisi di trasformazione

della rappresentanza politica nelle democrazie occidentali,

in relazione all’accrescersi della spinta alla partecipazione

diretta dei cittadini nella scelta di uomini e programmi di

governo.

Viene ad incidere anche da noi la pressione per il ridimensionamento

di una «democrazia mediata» dai partiti, a favore di

una «democrazia immediata», che aumenti la possibilità di decisione

effettiva da parte dei cittadini. Anche se poi non manca di

farsi sentire la propensione verso forme di «democrazia plebiscitaria

», con la disponibilità a forme di delega a personalità ed istituzioni

più o meno carismatiche. A queste si viene a chiedere, da

una parte, l’eliminazione di tutte le disfunzioni e, dall’altra, il

mantenimento dei vantaggi settoriali e corporativi.

Si precisa così una specie di circolo vizioso, che vede l’opinione

pubblica ed i cittadini contestare i limiti della delega concessa

ai partiti e l’uso incontrollato da parte loro della stessa, e puntare

al tempo stesso all’attribuzione di deleghe ancora più ampie a

soggetti politici istituzionali ancor meno controllabili. Tutto questo

comunque trae alimento anche da forme più o meno consapevoli

di rifiuto della «complessità» della democrazia pluralista,

dovute pure alla mancata responsabilizzazione dei cittadini nella

scelta di governanti da loro controllati effettivamente rispetto ai

risultati.

Di qui il favore per le prospettive di una grande semplificazione

della democrazia della rappresentanza e dei partiti, che

ponga termine all’occupazione ed alla presenza capillare di questi

nella vita dello Stato e della società. Ma tale prospettiva apre

la strada sostanzialmente all’alternarsi di «movimentismo» e di

«delega plebiscitaria». E l’effetto non può che essere il ridimensionamento

delle possibilità di concreta partecipazione, alla base

ed al vertice, offerte dal pluralismo sviluppatosi nella nostra

democrazia, pur in mezzo a tanti squilibri, nonché la riduzione

della possibilità di un controllo reciproco tra i poteri, a garanzia

di una limitazione degli stessi a favore dell’autorealizzazione

individuale e collettiva.

 

  1. La via da imboccare è, invece, quella di una riorganizzazione

del pluralismo politico, sociale ed istituzionale e di una razionalizzazione

della complessità raggiunta dalla democrazia anche

nell’Italia repubblicana. Si tratta di individuare nuovi equilibri

fra partiti, che hanno esaurito la funzione di supplenza per lo sviluppo

democratico e non riescono più a legittimare la posizione

egemone occupata, ed istituzioni e formazioni sociali, che debbono

veder riconosciuta la loro autonomia specifica, con il potenziamento

dei compiti loro propri. Si tratta di passare dall’equilibrio

in qualche modo «eccezionale» della fase di fondazione e

radicamento della democrazia repubblicana all’equilibrio per così

dire della «normalità» per quest’ultima. Il che impone di superare

il sistema dell’egemonia per qualsiasi soggetto politico e sociale e

di mettere ordine nelle interdipendenze fra gli attori della democrazia

pluralista. È questa la via per consolidare le conquiste raggiunte

con l’accordo sempre più generalizzato sul metodo della

libertà e della partecipazione, potenziando l’efficienza operativa e

la trasparenza di ogni potere rispetto ai cittadini.

A tal fine la Costituzione del 1948 mantiene una piena validità.

Essa presenta indicazioni puntuali e potenzialità da sviluppare

che costituiscono il miglior punto di riferimento per l’adeguamento

del sistema dei partiti e dei poteri alle grandi e complesse

trasformazioni verificatesi nella società italiana, in vista anche

dell’aggancio sempre più pieno alle regole comuni alle democrazie

europee ed anglosassoni.

Non è vero, come da qualche parte si sostiene, che la Costituzione

è nata vecchia ed è comunque invecchiata, già nella parte

dei principi, e soprattutto nella parte relativa all’organizzazione.

Può indubbiamente risultare datata la formulazione ideologica

di qualche principio; ma non è certo datata la scelta della ricerca

di equilibri sempre più validi e incisivi tra libertà ed eguaglianza,

fra diritti e doveri, fra sovranità popolare e pluralismo.

Innegabili risultano poi i limiti del disegno costituzionale in

ordine ad una forma di governo parlamentare non compiutamente

razionalizzata, per quanto riguarda la stabilità dell’Esecutivo.

Ma essi non sono il risultato di scelte astratte o arretrate;

sono invece l’effetto del mancato accordo pieno alla Costituente

tra le forze antifasciste sui «fondamenti della democrazia». In

ogni caso, il completamento di tale accordo rende possibile adesso

andare avanti nell’opera lasciata a metà dalla Costituente,

creando le condizioni, anche istituzionali, per il rapporto dialettico

fra un Esecutivo stabile ed un Legislativo saldo, sulla base di

un’applicazione adeguata del principio di maggioranza, reso efficace

dalla possibilità dell’alternanza.

Così come, più in generale, l’adesione generalizzata ad un

metodo democratico condiviso permette di cogliere le potenzialità

del principio della «sovranità popolare», per la realizzazione

di nuovi equilibri tra democrazia rappresentativa e democrazia

diretta e per l’affermazione del ruolo del cittadino come arbitro

ultimo della vita democratica, a partire dalla scelta della maggioranza

e del ricambio della stessa. E lo stesso vale per la potenzialità

del principio di una «divisione dei poteri», a livello statale

come a livello locale, sia in ordine alla puntualizzazione dei

compiti di ognuno ed all’aumento della capacità decisionale e

della funzionalità organizzativa, sia in ordine al dispiegamento

di un efficace sistema di «contrappesi» e di controlli reciproci.

Contemporaneamente diventa possibile andare avanti nello sviluppo

dell’equilibrio fra diritti e doveri dei cittadini fissato nella

Costituzione, in vista di una sempre migliore composizione dello

«Stato di diritto» con lo «Stato sociale», con il superamento dei

limiti della burocratizzazione ed il potenziamento del pubblico,

del privato e della solidarietà negli ambiti propri.

Su questa base la Dc continua a ribadire, anche adesso, la

tesi che le riforme istituzionali, se vogliono essere indirizzate

allo sviluppo delle conquiste della democrazia repubblicana, con

il superamento dei limiti emersi, debbono collegarsi ad un «perfezionamento

» della Costituzione del 1948, al di fuori della logica

della grande rottura, dagli esiti imprevedibili, come di quella

dei piccoli interventi conservativi ormai inefficaci. Ma per muoversi

in tale direzione il passaggio decisivo è costituito da scelte

acconce dei partiti e da comportamenti conseguenti degli stessi.

E qui, invece, viene alla ribalta anche ora un loro impigliarsi

nella contrapposizione tra «uso partigiano» ed «uso sistemico»

delle riforme istituzionali. Adesso, in particolare, viene ad operare

la tentazione di piegare le riforme alla precostituzione della

posizione più vantaggiosa per il singolo partito a detrimento

degli altri, in una situazione che vede ridursi lo spazio preponderante

contro le forze antisistema, senza che sussistano ancora

tutte le condizioni per l’alternanza tra maggioranza ed opposizione.

Si tende a fare delle riforme lo strumento per l’aumento

del «potere di coalizione» di qualche forza e della sua capacità di

condizionamento nei confronti dei possibili partners nell’ambito

di un «gioco a tutto campo» che ponga le altre forze in posizioni

subalterne. Si vuol fare delle riforme lo strumento per mantenere

il meccanismo della «centralità» inamovibile nella coalizione

di governo per il partito ed il polo ed in grado di risultare determinante

in ogni coalizione: ma senza tener conto, fra l’altro, del

fatto che essa sta perdendo peso, per il ridursi della «diversità»

delle forze antisistema.

Su tale piano non vi è possibilità di accordo fra i partiti per

riforme incisive, non essendo componibili i contrastanti interessi

al potenziamento del ruolo proprio di ognuno, al di fuori di

regole e limitazioni condivise. Resta solo lo spazio per colpi di

mano, da parte delle forze in grado di imporli, o per risposte

difensive, da parte di quelle messe maggiormente in difficoltà.

Ma il risultato più probabile rimane un nulla di fatto che verrebbe

a dar ragione a quanti ipotizzano una specie di impossibilità

strutturale dei partiti ad impegnarsi assieme in un adeguato processo

di riforma istituzionale.

 

  1. Esiste però un’altra strada che i partiti possono e debbono

imboccare. Ed è quella della ricerca degli accordi per riforme

che accrescano la funzionalità delle istituzioni statali e locali, sul

piano della capacità decisionale come su quello del controllo

reciproco. È questa la via per mettere in condizione le forze di

maggioranza e di opposizione di svolgere meglio i compiti loro

propri ed aumentare le proprie «chances» nella battaglia per la

guida del paese. Solo così si può arrivare ad organizzare la competizione

fra i partiti in una democrazia matura, collegando il

nostro multipartitismo alla costruzione di coalizioni alternative

e potenziando come arbitro il cittadino elettore.

In proposito, è emerso adesso un fatto abbastanza nuovo che

va valorizzato. Si tratta della disponibilità dichiarata da forze di

opposizione, ed anche di maggioranza, a darsi carico della funzionalità

delle istituzioni come di un bene in sé per lo Stato

democratico, al di là degli effetti immediati per le forze al governo

e per quelle escluse dal medesimo.

Per parte sua, la Democrazia Cristiana non può non sottolineare

con soddisfazione l’adesione all’indicazione in tal senso,

da essa fornita da tempo. E non può che impegnarsi per far

aumentare, in generale, la consapevolezza del porsi delle riforme

istituzionali come la via regia per i partiti che hanno costruito la

democrazia repubblicana, per legittimarsi come guida dell’adeguamento

della medesima alle profonde trasformazioni di una

società ormai in cambiamento continuo.

Passa di qui anche la realizzazione di quella «riforma dei partiti

» posta, con insistenza sempre maggiore, come un elemento

decisivo per lo sviluppo ulteriore della democrazia repubblicana,

secondo le linee di tendenza comuni alle democrazie dell’Occidente.

Ed in effetti la capacità dei partiti di accettare limitazioni

anche per loro, connesse a riforme che accrescano l’autonomia

specifica delle istituzioni ed il primato dei cittadini, costituisce il

modo migliore per essi per arrivare a comportamenti corretti e

trasparenti nella vita interna e nei rapporti reciproci, oltre che in

quelli con i pubblici poteri. D’altra parte, solo muovendosi per

primi in tale direzione, i partiti possono avere titoli e forza per

guidare la sempre più indispensabile «riregolamentazione» dei

poteri economici e sociali, che blocchi concentrazioni eccessive

ed anarchie dirompenti.

Tutto questo non richiede, come da qualche parte si sostiene,

una nuova «fase costituente», con la sospensione della normale

dialettica fra maggioranza ed opposizione. Richiede invece che

l’una e l’altra sappiano organizzare un confronto adeguato, dandosi

carico delle ragioni della maggioranza in quanto tale e dell’opposizione

in quanto tale, a prescindere dal ruolo occupato al

momento dalla singola forza.

Bisogna che tutti i partiti si misurino a vicenda sulla disponibilità

ad avviare una politica costituzionale di adeguamento continuo,

per così dire, delle istituzioni repubblicane alla società in

cambiamento, secondo la prassi delle liberaldemocrazie più solide.

Bisogna che essi verifichino reciprocamente la disponibilità

a prendere in considerazione congiuntamente le esigenze di

«governabilità» e di «democraticità», di decisionismo e di garantismo,

di una Repubblica che venga a funzionare sulla base del

principio di maggioranza, con la garanzia della possibilità dell’alternanza,

facendo del cittadino il perno della decisione ultima.

In ogni caso, è indispensabile che la discussione fra le forze

politiche sia serrata e limpida, in modo da mettere in condizione

l’opinione pubblica di valutare le intenzioni effettive di ogni partito,

contribuendo a bloccare quanti alzano cortine di fumo, o

per non cambiare nulla o per strumentalizzare le riforme a proprio

esclusivo vantaggio.

Indubbiamente, come mostrano esperienze recenti di altre

democrazie, la strada più semplice per dare positiva conclusione

al confronto tra le forze politiche sulle riforme sarebbe la presenza

di una maggioranza compatta e determinata, in grado di

misurarsi con l’opposizione e poi decidere. Solo che da noi, sia

per le modalità particolari della fondazione e del radicamento

della Repubblica, sia per la complessità della transizione dal

sistema del partito centrale, come perno dell’aggregazione della

coalizione di governo, al meccanismo delle coalizioni in grado di

alternarsi, rende necessario e comunque opportuno un rapporto

in qualche modo alla pari, in Parlamento, fra tutte le forze che si

riconoscono nella Costituzione repubblicana.

È abbastanza diffusa la tesi che pone in risalto una specie di

impossibilità strutturale delle democrazie, e di quelle parlamentari

e pluripartitiche in ispecie, a riformarsi ed a realizzare

mutamenti incisivi nei rapporti delle forze politiche con le istituzioni ed i cittadini.

Ma la tesi non corrisponde alla realtà, che ha

visto in questi ultimi anni democrazie europee ed extraeuropee

procedere, sotto la guida di maggioranze omogenee, anche se

pluripartitiche, ad incisive riforme pure del sistema elettorale.

Il caso italiano è reso peculiare dall’assenza di una maggioranza

di tal genere. Ed in effetti le riforme istituzionali sono

finalizzate da noi alla creazione delle condizioni per il consolidamento

della maggioranza di governo in sé, ed all’affermazione in

generale del principio di maggioranza nel funzionamento della

nostra democrazia.

Tutto questo, però, è reso difficile dal tentativo ricorrente di

finalizzare le riforme non all’avvento di una maggioranza solida

in quanto tale, ma all’affermazione di una specifica maggioranza,

attorno all’egemonia più o meno irreversibile del singolo partito

ed alla subalternità degli altri.

Ma se la logica rimane questa il confronto in Parlamento non

può portare molto lontano. Cresce così infatti lo spazio per il

prevalere dei veti incrociati come si è verificato a partire dalla

fase finale della Commissione Bozzi.

Bisogna impegnarsi in definitiva nella sfida per costringere le

forze politiche ad esplicitare la portata effettiva della apertura ad

una ricerca in comune di «compromessi ragionevoli» sulle priorità

e le scadenze che consentano di dare gradualità ed organicità

al processo riformatore, con la garanzia del blocco di ogni

manovra strumentale e prevaricatrice.

Di qui la rinnovata insistenza, anche nell’ultima Direzione

della Democrazia Cristiana, sulla opportunità di prendere le

mosse dalle «riforme preliminari»: da quelle, cioè, in grado di

porre in essere lo strumento per l’accelerazione delle stesse. È

questo il caso anzitutto della riforma del Parlamento. Essa comporta

la modifica dei regolamenti e la revisione del bicameralismo

e l’avvio della delegificazione quale via per consolidare un

rapporto dialettico tra funzioni proprie della maggioranza e dell’opposizione,

ed in generale fra quelle di indirizzo e di controllo

del Legislativo e quelle di direzione e di coordinamento dell’Esecutivo,

mettendo in condizione tutti di dare il proprio apporto al

meglio per ulteriori grandi leggi di riforme.

Su tale base può poi essere messa in cantiere la riforma del

Governo, a partire dalla legge sulla Presidenza del Consiglio,

nonché la riforma delle autonomie locali, resa sempre urgente

anche da un aggravarsi della instabilità degli Esecutivi e delle

inefficienze e delle scorrettezze nella gestione, sempre meno tollerate

dai cittadini.

 

Con questa priorità, la Democrazia Cristiana intende porre il

problema di mettere in moto un riordinamento delle strutture del

potere politico-istituzionale che consenta di fuoriuscire dalla crisi

non solo di «funzionalità» ma anche di «legittimità» del medesimo.

È questo il modo migliore per perfezionare l’accordo sui fondamenti

della democrazia repubblicana tra i partiti che si sono

impegnati nella costruzione della stessa, così da poter poi avviare

a soluzione compiuta il problema della maggioranza legittimata a

governare sulla base della scelta diretta dei cittadini.

Va registrato adesso l’aumento delle convergenze su tale posizione

di forze di maggioranza e di opposizione. Resta però il

problema di passare dalle parole ai fatti. E per questo bisogna

accelerare la conclusione in Parlamento del lavoro comune di

impostazione del processo riformatore, valorizzando il ruolo dei

Presidenti delle AsseMblee, della Giunta del regolamento e della

Commissione di merito. Altrimenti ognuno dovrà assumersi le

proprie responsabilità di fronte ad un paese sempre più critico,

ed a ragione.

 

(Testo tratto dal volume pubblicato dall’agenzia Arel: PER UNA REPUBBLICA DEGLI ARBITRI. OMAGGIO A ROBERTO RUFFILLI.  (A Cura di Mariantonietta Colimberti e Filippo Andreatta), Roma 2013, Pagg. 77-86).

IL PD HA UN FUTURO? Intervista a Giorgio Tonini

Le consultazioni riprenderanno in settimana. Tra mosse e contromosse, come in una partita a scacchi, le chiacchere, tra Di Maio e Salvini, di questi giorni “stanno a zero” (per richiamare il bellissimo titolo del quotidiano “Il Manifesto” di questa mattina).

Intanto all’interno del PD, il grande sconfitto delle ultime elezioni, ci si interroga sul proprio futuro. Nell’opinione pubblica, che fa riferimento all’area di quel che resta del centrosinistra, non sono mancati interventi  sulle prospettive del PD. Partito che terrà la sua Assemblea Nazionale, a Roma, il prossimo 21 Aprile. Assemblea che si preannuncia difficile. Di tutto questo parliamo con un autorevole osservatore della politica italiana, che è stato per il PD, nella precedente legislatura, Presidente della Commissione Bilancio del Senato, Giorgio Tonini.

Giorgio Tonini, dopo quattro legislature lei non si è ricandidato e adesso è un ex-senatore, ma rimane un esponente politico del PD, autorevole perché di grande esperienza (nella precedente legislatura è stato, tra l’altro, Presidente della Commissione Bilancio del Senato). Proviamo, per quanto è possibile, a fare un ragionamento sulla crisi del suo partito. Non si può non prendere le mosse dalle cause della sconfitta. Come è stato possibile che un intero gruppo dirigente non si sia accorto del grido di dolore, di protesta che saliva dalla società? Eppure la sconfitta referendaria del famoso 4 dicembre avrebbe dovuto essere motivo di grande allarme…

Non credo si possa dire che, al di là della propaganda, il gruppo dirigente del Pd pensasse di poter vincere le elezioni. Dopo il 4 dicembre era chiaro a tutti che nel paese era in atto una crisi di rigetto nei confronti del nostro riformismo. In particolare, tutti sapevamo di essere tagliati fuori dal confronto politico nel Mezzogiorno: l’area del paese che aveva pronunciato il No più categorico al referendum costituzionale, un’area nella quale la partita era tra la destra e Cinquestelle, con un forte vantaggio del movimento grillino. Sapevamo che anche al Centro, nelle tradizionali roccaforti rosse, rischiavamo un pesante ridimensionamento, anche a causa di una scissione che, contrariamente a quel che pensavano i leader di LeU, sarebbe stata a somma negativa. In molti (ed io ero tra questi), speravamo in un risultato migliore al Nord, ove era ed è maggiormente percepibile un dividendo sociale della ripresa economica. Ma abbiamo sottovalutato quella che io chiamo la “sindrome bavarese”: un malessere diffuso, in gran parte indotto dal complesso fenomeno dell’immigrazione e che, anche nella regione più prospera della Germania, ha penalizzato fortemente il partito di governo, la Csu, l’alleato fondamentale della Merkel. Alla fine il risultato è stato peggiore delle previsioni più pessimistiche per il Pd, molto lontano, in peggio, perfino dalla sconfitta del 4 dicembre. Al di là del dato numerico, tuttavia, sul piano politico si è verificato quel che si prevedeva: una sconfitta del Pd, ma senza nessun vincitore, nessuno in grado di avere i numeri per governare sulla base di un chiaro mandato elettorale. Non riesco a non dire che solo se fosse stata approvata la riforma costituzionale, insieme all’Italicum, avremmo oggi un governo deciso dagli elettori. Il 19 marzo avremmo avuto il turno di ballottaggio, che probabilmente avrebbe visto uno spareggio tra Cinquestelle e Pd. Ma i due vincitori del 4 marzo, la destra e i Cinquestelle, il 4 dicembre avevano preferito puntare sullo sfascio, pur di abbattere Renzi, il governo e il Pd. E oggi, per uno dei frequenti paradossi della storia, devono chiedere al Pd i voti per governare…

La sconfitta è figlia di tanti errori, ma qual è stato l’errore “letale”  fatto dal PD?

Aver pensato che il 40 per cento delle europee fosse una delega in bianco. E non aver colto che in quel voto c’era una contraddizione interna che non sarebbe stato facile sciogliere. Mi riferisco alla contraddizione tra la componente populista del renzismo, quella che ne faceva una proposta in netta discontinuità con le politiche del governo Monti, una discontinuità simboleggiata dagli 80 euro, che sono parsi annunciare una nuova stagione redistributiva, e la necessaria, vorrei dire inevitabile, disciplina europea della politica economica dell’Italia, che ha segnato, io dico positivamente, l’azione del governo Renzi e, in modo ancora più netto, quella del governo Gentiloni. Per la verità, Renzi a me è parso sempre consapevole di questa contraddizione, di questa tensione tra un voto al Pd in quanto unico partito europeista e un voto al renzismo, in quanto versione omeopatica del populismo. Renzi e noi con lui abbiamo pensato che l’unico modo possibile di gestire questa tensione tra europeismo e populismo fosse scommettere sul riformismo, innanzi tutto a livello europeo. E infatti il 40 per cento del Pd è servito a “riformare”, all’insegna della flessibilità, il Patto di stabilità e crescita e il Fiscal Compact. Lo stesso indirizzo espansivo della politica monetaria, impresso da Draghi alla Bce, è stato coerente con questa riforma europea. Ma il riformismo, come ha ripetutamente spiegato il ministro Padoan, è un “sentiero stretto”, che impone una pazienza e una disciplina condivise, a livello diffuso, tanto più per un Paese come il nostro, afflitto da problemi strutturali immensi: il debito pubblico più grande, la demografia peggiore, la produttività più bassa, il più alto livello di disuguaglianza, la più estesa area di sottosviluppo in Europa. Qui facciamo i conti con il limite più grave della politica renziana: la sottovalutazione del ruolo del partito, strumento essenziale per costruire questa consapevolezza diffusa. Renzi può invocare molte attenuanti, perché nessuno dei suoi predecessori ha davvero capito la necessità di costruire modalità innovative di organizzazione politica della società civile. Resta il fatto che lui ha sostanzialmente abbandonato questa decisiva frontiera e quando ha avuto bisogno del partito ha trovato solo macerie: quello che doveva essere non un “nuovo partito”, ma un “partito nuovo” era ridotto ad una confederazione di correntine, un po’ patetiche e molto ridicole, naturalmente in perenne lotta tra loro, per un potere che si stava sbriciolando.

Non le ha fatto impressione che parecchi lavoratori iscritti alla Cgil abbiano votato 5Stelle e Lega?

No, perché purtroppo non è una novità. Sono decenni che il voto operaio va in maggioranza a destra. Anche nel 2013 il Pd di Bersani si era piazzato al terzo posto nelle preferenze degli operai, dopo Cinquestelle e destra. Si potrebbe ricercare una radice antica di questo fenomeno perfino nel gramscismo, che stabilì il primato della “riforma intellettuale e morale” su quella economica e sociale… Forse è anche per questa ragione che non abbiamo mai avuto in Italia un grande partito riformista, perché la sinistra ha preferito discutere per decenni su come riformare il comunismo, anziché su come riformare il capitalismo… Chissà, forse se avessimo avuto Di Vittorio, invece di Togliatti, alla guida della sinistra italiana, le cose sarebbero andate diversamente… Ma senza andare troppo indietro, in tutta la Seconda Repubblica, dal 1994 ad oggi, solo una volta il centrosinistra ha avuto la maggioranza dei voti operai: è stato alle elezioni europee del 2014, quelle del Pd al 40 per cento. Semmai, la brutta notizia delle elezioni del 4 marzo è che abbiamo perso il primato nel voto degli impiegati, in particolare pubblici, a cominciare dagli insegnanti.

Ora da parte di alcuni intellettuali, e anche riviste vicine alla sinistra si chiede di sciogliere “questo” PD e ripensare, in profondità, le ragioni di una forza di sinistra nel nostro Paese. Insomma siamo all’anno zero della sinistra italiana?

Ecco, appunto: torniamo a discutere di come riformare la sinistra, invece di come riformare il Paese… Pensiamo alla quantità di energia sprecata nella scissione, motivata dalla ricerca della sinistra perduta: tonnellate di carta, milioni di parole, per spostare seimila voti, quelli che, sulla base dei conti dell’Istituto Cattaneo, LeU ha preso in più nel 2018, rispetto a quelli che Sel aveva preso da sola nel 2013. Seimila voti, su 60 milioni di italiani. Lo 0,01 per cento. L’ex-presidente del Senato, Piero Grasso, è tornato a Palazzo Madama alla testa di un gruppo di quattro senatori, compreso se medesimo. E al suo posto ora c’è una pasdaran berlusconiana, eletta coi voti dei Cinquestelle. Un capolavoro di eterogenesi dei fini. No, non è riaprendo l’inutile disputa teologica circa l’essenza della sinistra che ritroveremo la via delle menti e dei cuori degli italiani. Per me un partito è fatto di tre cose: una visione del mondo, che per noi è data dal tentativo mai perfetto di coniugare crescita economica e uguaglianza sociale nella democrazia; un programma, fatto di risposte concrete ai problemi del Paese; e un’organizzazione per elaborarlo in modo collettivo e realizzarlo col consenso dei cittadini. Il programma non può essere altro che un nuovo tentativo di quadrare il cerchio tra europeismo e populismo, attraverso il riformismo. Dobbiamo smontare mentalmente quello che abbiamo fatto e rimontarlo in modo più convincente. E dobbiamo mettere mano ad una nuova forma di organizzazione politica, mutuando le tecniche organizzative più efficaci e innovative dal mondo che vive attorno a noi. L’organizzazione è una scienza, che ha prodotto tecniche sofisticate. E invece noi l’abbiamo affidata a dei praticoni, senza alcun investimento intellettuale, professionale, finanziario.

Per qualcuno una via d’uscita alla crisi è  quella “macroniana”, ovvero costruire un partito alla Macron… A me sembra una cosa  che non risponde alla crisi del Pd. C’è stato un voto chiaramente antiestablishment e si propone, invece, un modello che è establishment o tecnocratico. Certo alcuni valori di Macron, vedi l’Europa, sono importanti altri sono distanti. Qual è il suo pensiero?

Il mio pensiero è che la inaspettata vittoria di Macron ha salvato l’Europa, che sarebbe morta se avesse vinto il fronte nazionalista lepeniano. Salvando l’Europa, Macron ha rimesso la Francia al centro della politica europea, rilanciando l’asse franco-tedesco. Nei due anni precedenti non era stato così. Dalle europee del 2014 fino al referendum costituzionale, l’Europa era stata guidata da un asse italo-tedesco, con l’Italia di Renzi che non ha imposto la sua agenda, questo no, ma è riuscita a condizionare in modo significativo quella tedesca. La crisi del Pd, a partire dal 4 dicembre 2016, e il parallelo riemergere prepotente della Francia di Macron, hanno ristabilito il vecchio schema, che prevede il primato franco-tedesco e l’Italia come partner debole dei due più forti, insidiata dalla Spagna nel ruolo di numero 3. Ora il Pd non ha più la forza di imporre il suo gioco e non vedo per noi altra vocazione che quella originaria: essere parte della famiglia socialista per costruire un centrosinistra europeista più ampio, che abbia oggi in Macron il suo primo interlocutore. Penso che il primo obiettivo dovrebbe essere quello di individuare, per le elezioni europee del ‘19, un candidato comune alla presidenza della Commissione europea, in alternativa a quello che proporranno i popolari. Non si tratta quindi, per il Pd, di scegliere tra Macron e i socialisti, ma di lavorare ad un’alleanza tra queste forze.

Il futuro di Matteo Renzi?

Un vecchio sindacalista diceva: se non riesci ad essere una risorsa, cerca almeno di diventare un problema. Ecco, io spero che Renzi non ascolti consigli come questo. Spero che lavori ad un disarmo bilanciato delle correntine che stanno dilaniando il Pd, che oggi appare diviso tra fedelissimi del capo sconfitto e nostalgici della sconfitta precedente. Due posizioni, una più respingente dell’altra. Mi auguro che Renzi nutra l’ambizione di aprire una fase nuova, mostrando il coraggio dell’umiltà e dell’inclusione.

Torniamo al partito. Nel progetto del PD, sintetizzato nella sua carta dei valori, c’era il meglio del riformismo italiano. Era presente un’eco della “terza via”. Una “terza via” che non è stata capace di regolare la globalizzazione. Anzi, per certi versi, è apparsa troppo accondiscendente. Insomma se un qualche “ripensamento” andrà fatto dove trovare sul piano culturale politico spunti per una nuova “lingua” del PD?

Non ho mai condiviso questi giudizi sommari sulla “terza via”, perlopiù pronunciati da esponenti della sinistra minoritaria, se non gruppuscolare, quella che sogna la bella sconfitta e disprezza le brutte vittorie, quelle che fanno i conti col principio di realtà. La “terza via”, da un secolo a questa parte, è sempre stata il sinonimo del riformismo. La “terza via” è la riforma del capitalismo, il suo condizionamento attraverso l’azione sociale e politica, la sua graduale trasformazione in economia sociale di mercato. Il problema oggi aperto davanti al riformismo, nei paesi occidentali, è che la via riformista per tutto il Novecento ha potuto fare leva sullo Stato nazionale, perché era a quel livello che era possibile condizionare in modo efficace il capitalismo, mentre oggi questo non è più possibile. Il capitalismo globalizzato sfugge alla regolazione degli Stati nazionali. Di qui la vera alternativa del tempo presente: ristabilire il primato degli Stati nazionali, anche a costo di sacrificare lo sviluppo capitalistico, in realtà lasciandolo ad altri, o invece adeguare gli strumenti di regolazione, spostandoli ad un livello sovranazionale, nel nostro caso almeno europeo e in parte transatlantico. Ecco, io penso che il nostro problema non sia oggi rinunciare alla “terza via” in nome di una chiusura neo-sovranista, sulla linea vagheggiata da Trump, ma di costruirla, la “terza via”, la riforma del capitalismo, ad un livello sovranazionale, sulle orme del grande lavoro fatto negli anni scorsi da Obama. Cominciando dalla riforma europea, sulla falsariga di quella proposta da Macron.

Se lei dovesse indicare, in estrema sintesi, le priorità del PD quale metterebbe?

La riforma europea. La costruzione di una sovranità europea condivisa tra gli Stati che accettano di farlo. Difesa, sicurezza, immigrazione, frontiere comuni. E poi, nodo decisivo, una capacità di bilancio dell’Eurozona. Solo se riusciremo a rimettere in moto la costruzione di un’Europa politica, potremo quadrare il cerchio in Italia tra crescita, occupazione e riduzione del debito. Per ridurre il debito dobbiamo fare un elevato avanzo primario, ossia destinare a quell’obiettivo una quota significativa di entrate fiscali, che per molti anni devono essere sottratte a investimenti produttivi e servizi sociali. Ma il voto del 4 marzo ci dice che il Paese non ce la fa più a sostenere questo sforzo. Perché è un paese che da troppo tempo non investe più sul futuro: infrastrutture materiali e immateriali, scuola, università, ricerca, innovazione. Solo se scende in campo l’Europa, attraverso un bilancio dell’Eurozona, a sostegno della crescita e dell’occupazione, il doveroso e indispensabile rientro dell’Italia dal debito può farsi sostenibile. Anche politicamente.

Ultima domanda: Ha qualche consiglio da dare ai suoi amici impegnati nelle consultazioni?

Penso che il Pd abbia il dovere di avanzare una proposta programmatica per il governo del Paese. Poi è evidente che, sulla base dei rapporti di forza in parlamento, la costruzione di un assetto di governo non è nelle nostre mani. Ma dobbiamo evitare di trasmettere ai cittadini sia l’impressione che ci chiamiamo fuori da ogni responsabilità per rabbia e per rancore, sia la sensazione di essere alla ricerca di una quota di potere a qualunque costo. Alcuni punti programmatici molto chiari possono rendere comprensibile la nostra scelta, qualunque essa risulti essere, alla fine di una crisi politica che certo non sarà breve.

Il sindacato nel nuovo scenario politico. Intervista a Giuseppe Sabella

(ANSA/MASSIMO PERCOSSI)

Nel nuovo scenario politico, in cui la forza di Lega e M5S è decisiva, la politica economica e sociale pare al centro delle attenzioni. Il sindacato è, ovviamente, tutt’altro che disinteressato al rapporto con la politica.

Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in, think tank che domani in collaborazione con la Uilm a Milano – presente anche il segretario generale Rocco Palombella – promuove una tavola rotonda su Industria 4.0 presenti Confindustria (P. Albini), Cgil (F. Martini), Cisl (G. Petteni) e Uil (T. Bocchi).

SABELLA, la situazione politica pare molto complicata visto che nessuna forza politica ha la maggioranza. Come può finire questa situazione?

Ciò che appare è un continuo tiro alla fune tra Lega e M5S per la Presidenza del Consiglio. Ma non credo che nè Salvini e nè Di Maio saranno a capo del prossimo governo. Lega e M5S hanno reciprocamente bisogno l’uno dell’altro. E io credo che Salvini e Di Maio lo sanno bene. Dalla loro intesa hanno da guadagnare entrambi: la Lega può egemonizzare il centrodestra e il M5S può erodere voti al Pd. Gestire bene questa situazione significa presentarsi nel modo giusto alle prossime elezioni, che potrebbero non essere tra cinque anni ma prima.

Lega e M5S sono molto diversi nella loro base, il primo oltretutto è espressione di una visione autonomista del nord, il secondo del mezzogiorno. Come possono trovarsi d’accordo?

Sono molto diversi, è vero. Ma hanno anche molte cose in comune e soprattutto l’occasione che hanno davanti è troppo grande per farsela scappare. Possono trovarsi d’accordo innanzitutto sul nome del Presidente del Consiglio. Giuliano Ferrara ha fatto il nome di Gian Maria Flick: penso che sia un’ipotesi tutt’altro che remota. Un profilo di questa statura potrebbe metterli d’accordo, così da lavorare su un programma di massima. E, forse, è la volta buona che affrontiamo la questione meridionale: ciò vuol dire investire su industria e turismo per esempio, cosa che non credo dispiaccia nemmeno alla Lega di Salvini.

Il sindacato come si pone nei confronti della politica emergente? Sia Salvini che Di Maio, tra l’altro, spesso si sono lasciati andare a dichiarazioni tutt’altro che lusinghiere sul sindacato…

Al di là delle schermaglie, che anche il governo Renzi ha avuto col sindacato, non credo che si possa superare la rappresentanza sociale. Certo, un esecutivo deciso in materia di lavoro di lavoro può mettere in difficoltà le organizzazioni sindacali, le può stressare, ma non credo si possa pensare di azzerarne il potere. E che nessuno lo pensi… Detto questo, secondo me il sindacato ha chiaro che il governo che viene farà qualche manovra economica più espansiva di quelle che abbiamo visto sino ad oggi. Quindi, aspetta alla finestra. E senza pregiudizi…

Nemmeno la Cgil? E che cosa aspettarsi dal nuovo governo?

La Cgil è forse in questo momento quella che più vede opportunità in questo governo. È chiaro che il peso del M5S molto orienterà le scelte della politica economica in senso sociale. Lo stesso dicasi di ciò che Salvini vuole fare. Il possibile punto di incontro tra Lega e M5S è proprio su questo terreno e può trovare un buon consenso tra le parti.

Ci spieghi meglio…

Sia la Lega, con la FlatTax, che il M5S, con il di cittadinanza, si sono proposti anche per migliorare la condizione sociale di chi li ha votati. Ora, qualcuno obietterà che non ci sono i soldi per FlatTax e rdc. Vero, ma fino a un certo punto. Per esempio, si può rafforzare il già esistente reddito di inclusione e cambiargli il nome. E questo potrebbe essere ciò che il M5S restituirà alla sua base. Si può, e si deve io dico, fare una riforma fiscale: se non sarà FlatTax poco importa, ma le possibilità ci sono. Lo ha fatto anche Rajoy in Spagna nel 2014, il costo della riforma fiscale per le casse dello Stato in due anni viene ripagato da consumi e occupazione che crescono. L’Europa, come già successo nel caso della Spagna, ti permette di sforare anche il tetto del 3%: bisogna però impegnarsi con riforme strutturali e, soprattutto, controllo della spesa. Lo vorranno fare Salvini e Di Maio?