IL FUTURO DEL MANUFACTURING IN ITALIA

 

La lentezza con cui il governo si sta muovendo su un caso come Ilva, così strategico e determinante per il nostro sistema industriale, ci chiede di riflettere sul nostro futuro: l’Italia avrà ancora la forza di restare tra i paesi più industrializzati del mondo? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sabella, direttore di Think-in e coordinatore del progetto Think-industry4.0.

Sabella, a che punto siamo in Italia col piano industria4.0?
Abbiamo sicuramente indicatori che ci dicono che c’è un segmento virtuoso di imprese in Italia che si sta allargando: innanzitutto, la stima prudenziale del pil 2018 è +1,5% e quella potenziale +2%. Considerando che nel 2017 siamo cresciuti del +1,5%, la previsione più ottimista fa ben sperare.

È possibile dare una dimensione a questo segmento virtuoso?
Diciamo che incrociando le informazioni che arrivano dai sindacati e da una recente ricerca del Politecnico di Milano, circa il 50% del nostro sistema produttivo si rivela sensibile all’innovazione. Solo un anno fa questo segmento di imprese era dato al 30%, quindi oggi possiamo dire che si è allargato. E che, quindi, il piano industria4.0 sta funzionando. E questo è interessante, anche se poi c’è l’altro 50%…

Appunto. Cosa ne è di questo 50% di imprese non definibile virtuoso?
La maggior parte sono aziende di piccole dimensioni, che non riescono a lavorare sull’innovazione e sulla crescita della loro produttività. Altre sono aziende viziate da una delle caratteristiche di fondo del nostro sistema produttivo, in cui la gestione spesso passa di padre in figlio e laddove altrettanto di frequente subentrano figli che non hanno le competenze dei padri. E qui iniziano processi involutivi che frenano innovazione e competitività delle imprese.

A proposito della produttività del lavoro, da sempre tasto dolente del nostro sistema imprese, a che punto siamo e quali vie d’uscita?
Vero, questo è da sempre il nostro tasto dolente. Va detto però che le recenti rilevazioni del ministero del Lavoro sulla produttività, per effetto del piano industria4.0, ci parlano di un +0,9% nel 2017. Negli ultimi 15 anni, la produttività è cresciuta mediamente del +0,3% (fonte Istat) mentre media Ue +1,6%, area euro +1,3% Francia +1,6%, Germania +1,5%, Regno Unito +1,5%, Spagna +0,6%. Quindi, anche in questo caso è utile guardare con un po’ di ottimismo alla crescita della nostra impresa e, conseguentemente, della nostra economia.

Sono in molti però a dire che l’innovazione digitale più che creare posti di lavoro li rende superflui…
Il fenomeno della distruzione di lavoro esiste, ed è quello che fa notizia. Tutti i giorni ormai leggiamo di imprese che siccome automatizzano aspetti della produzione lasciano a casa delle persone. Però si omette di ricordare che, allo stesso tempo, l’innovazione crea lavoro e che i paesi che più vi hanno investito (es. Germania, GB, USA…) sono proprio quelli dove si creano nuovi lavori. Tuttavia, anche in Italia, registriamo trend interessanti: la Confindustria, anche in questo caso per effetto del piano industria4.0, ha recentemente comunicato che da qui a 5 anni si ricercano 280.000 nuovi innesti soltanto nei settori cardine, vale a dire la meccanica, l’agroalimentare, la chimica, la moda e l’Ict. L’innovazione delle imprese cresce e con essa il numero di nuovi posti di lavoro. Il saldo, nel medio termine, sarà certamente positivo.

Qual è il ruolo del sindacato in questo processo di innovazione d’impresa?
È difficile avere numeri precisi, ma possiamo dire che da tempo si registra una crescita progressiva della contrattazione aziendale. Ciò avviene in quel segmento virtuoso di imprese (o almeno in buona parte di esso) di cui parlavamo prima, anche perché facilmente, nelle organizzazioni complesse, le riorganizzazioni del lavoro passano dagli accordi sindacali. In sintesi, le rappresentanze del lavoro sempre più avranno un ruolo importante nella gestione della trasformazione dei processi in azienda.

Il governo Lega-M5S che intenzioni ha su questo versante? L’attuale Ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, non pare avere le idee molto chiare su Ilva per esempio, il che la dice lunga…
Salvini ha più volte detto che Ilva va rilanciata. Io non penso che Di Maio sia dell’idea diversa, il problema è che il M5S intercetta molto del malcontento che al Sud si pone in senso anti-industriale. Quindi, il Ministro dello sviluppo economico – pur sapendo che lo sviluppo economico non è chiudere Ilva – qualche problema lo ha nella vicenda Ilva e quindi non procede speditamente come, per esempio, il suo precedessore, più vicino invece agli ambienti dell’industria. Il punto vero è che, però, i nostri competitor si muovono ad un’altra velocità e, quindi, la domanda sul futuro del nostro manufacturing resta aperta.

L’inganno sovranista. Intervista a Marco Revelli

Il nostro paese è investito dall’onda nera del sovranismo. Un’onda che destabilizza i valori politici di fondo della nostra Repubblica. Quali sono le cause?
E’ possibile una “contronarrazione “civile alle urla sovraniste? Ne parliamo con Marco Revelli, professore di Scienza Politica all’Università del Piemonte Orientale.

Professor Revelli, tira una gran brutta aria nell’Occidente. Il “sovranismo”, termine aggiornato di nazionalismo spinto, e il populismo stanno dilagando. Un’onda lunga che parte da Trump e arriva fino a Salvini. Un’onda destabilizzante che travolge i valori universali di “liberté egalité fraternité”. Un mostruoso inganno. Le domando: perché la “ricetta” sovranista, con le sue varianti, seduce l’Occidente?
Effettivamente è avvenuto un cedimento strutturale dei valori dell’Occidente o quantomeno dei valori che si erano affermati immediatamente dopo la fine della Guerra mondiale. L’effetto morale dell’orrore, che il mondo aveva dovuto vedere e testimoniare in quel periodo, aveva prodotto un contraccolpo: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; la nascita del concetto di crimini contro l’umanità. Tutto questo è durato una settantina d’anni e oggi stiamo assistendo ad un’inversione di quei valori, che dilaga come una sorta di “onda nera” sulle due sponde dell’Atlantico che ha un suo baricentro negli Stati Uniti, che nel conflitto mondiale avevano rappresentato la bandiera della libertà ma anche dell’umanità, e che ritorna in quell’Europa orientale testimone di molti orrori, dove c’era Auschwitz. Anche paesi come la Germania vacillano con un populismo di estrema destra aggressivo. L’Italia anche è caduta in questo vortice, gli italiani “brava gente”, denominazione di cui ci gloriavamo, non è più così.

Dove sta l’inganno “sovranista”?
Molti di questi sentimenti si alimentano nella sensazione che le diverse società siano esposte a venti cattivi che provengono dall’esterno, che cancellano vecchie identità e anche sistemi di protezione sociale. Si diffonde l’idea falsa che il cedimento dei diritti sociali, del lavoro, l’idea che tutto ciò che è accaduto in questi due decenni sia colpa di chi è venuto dall’esterno. È una rappresentazione totalmente infondata: la sconfitta del lavoro, che è stata durissima e che ha determinato un forte arretramento in termini di diritti del lavoro, si è consumata ben prima che si consumassero i flussi migratori. Si è consumata alla fine degli anni ’70 e inizio degli anni ’80. Ha come causa la crescente importanza che il capitale finanziario e la finanza hanno acquisito, il salto tecnologico, l’informatica, l’elettronica, le telecomunicazioni veloci che permettono la delocalizzazione . Non sono i poveri di fuori che ci tolgono i diritti, sono i nostri ricchi che ci tolgono i diritti, ma con quelli il populismo non se la vede molto, li contesta di essere più tolleranti con i poveri. Questa è una narrazione micidiale perché ci rende impotenti di fronte ai veri meccanismi che stanno distruggendo le nostre società.

Professore, siamo nell’età della rabbia, come la definisce Pankaj Mishra (editorialista del “Guardian”), in cui “i ritardatari della modernità”, gli esclusi dai benefici del “progresso”, si rivoltano contro la globalizzazione. Ma è davvero tutta colpa della globalizzazione? Eppure, con i suoi grossi limiti, la globalizzazione ha portato alla “società aperta”. La sfida vera è tra “globalisti” e “sovranisti”? Oppure è una sfida finta?
Un po’ tutti noi abbiamo salutato il primo ciclo della globalizzazione, quella “dolce”, che permetteva la libertà di movimento, quella che in Europa era rappresentata da Schenghen. Non ci siamo resi conto che dentro quello sfondamento dello spazio circolava anche il male, i veleni che nello spazio globale ci sono, perché circolavano masse di capitale finanziario in grado di prendere in ostaggio i governi e di costringerli a fare ciò che vogliono, circolava l’odio, il terrorismo – anche se bisogna dire che buona parte degli episodi di terrorismo sono prodotti da figure interne – ma soprattutto non ci siamo resi conto che la globalizzazione destabilizzava alcune macchine politiche e amministrative che garantivano forme di sicurezza sociale. Il Welfare era gestito dagli Stati-Nazione e nell’attuale condizione non funziona più. È un cambiamento inevitabile, ogni ritorno indietro credo sia come far rientrare il dentifricio nel tubetto. La risposta sovranista alle esigenze sociali, che sono vere, perché la gente sta peggio, soprattutto il mondo del lavoro e i ceti medio-bassi sono i perdenti della globalizzazione, non è quella corretta. Chi vive in centro, chi non incontra i veri poveri sotto casa, non sentono la puzza della strada sono i vincitori. Dentro questo grande sconvolgimento la tentazione è quella di ritornare a chiudersi dentro i confini perché quando si è chiusi dentro i confini si sta meglio, ma non è così, perché chiudendosi si starà peggio. Gli imprenditori della paura sono i veri nemici di tutti. La sfida oggi è tra umano e disumano, stiamo perdendo qualcosa di noi stessi che è quella risorsa salvifica che ha permesso alla specie umana di sopravvivere e la capacità di com-patire, cioè di soffrire insieme. La capacità di vedere sé negli altri. Se perdiamo questo la società si decomporrà.

Veniamo al nostro Paese. L’Italia sta vivendo giorni esasperati. Le ultime vicende, che riguardano l’immigrazione, stanno facendo segnare, secondo i sondaggi, un ampio consenso alla propaganda antiimmigrati di Salvini. Un vero e proprio imprenditore della paura. Gli Italiani sono diventati euroscettici e poco solidali. Non siamo più, come ricordava lei, “Italiani brava gente” (che non era una frase fatta “buonista” ma indicava l’anima accogliente del nostro popolo). Insomma Professore siamo di fronte ad un mutamento “antropologico” degli italiani?
Sì, siamo in presenza di un mutamento antropologico degli italiani, che non è l’unico: nel 1938 le leggi razziali firmate e volute da un tiranno e da un re vigliacco e accettate da quasi tutto un popolo, perché non si levavano voci significative di fronte a quell’orrore, non ci furono proteste o anche solo domande, neppure di fronte a quei banchi vuoti degli studenti ebrei che avevano dovuto abbandonare le scuole, oppure gli ufficiali ebrei nell’esercito furono cacciati. Questo paese ogni tanto si anestetizza e partecipa all’orrore. In altri momenti ritrova se stesso e si riscatta, come nel caso della Resistenza, ma quando ci si deve riscattare costa sangue, ci furono molti morti per riscattare la vergogna degli altri.

Tutto questo mette in crisi le culture politiche che hanno plasmato l’italia: quella cattolica e quella della sinistra storica. Possono essere ancora una fonte di resistenza queste culture?
Il passaggio di uscita dal ‘900 ha lasciato dietro di sé molte culture politiche che non sono riuscite a transitare, penso a quella che è stata la cultura del movimento operario in Italia molto rappresentato dal partito comunista che è scomparso male, perché i suoi eredi hanno cercato frettolosamente di liberarsene come di una zavorra senza una grande riflessione e questo ha comportato la decomposizione della cultura di sinistra. La cultura cattolica sopravvive ma colpisce come operi soprattutto sottotraccia con dei bisbigli da parte dei suoi esponenti, quasi in imbarazzo per certi versi, tranne un grande Papa che predica e fa davvero il Papa senza che però buona parte, mi sembra, del mondo cattolico lo segua politicamente, quanto meno dando forma politica a questi appelli morali. Quello che rimane è una incultura politica: dalle vecchie rovine non è nata una nuova adeguata cultura politica. Quella che domina è una forma di incultura senza progetto, spesso occasionalista che sfrutta il momento dicendo alla gente quello che si pensa che la gente voglia sentirsi dire. In questo modo si creano voti ma non uno spazio civile e politico.

I 5Stelle stanno rivelando la loro grande fragilità politica e culturale, qual è il suo pensiero?
Io non sono tra quelli che hanno vissuto la crescita del Movimento 5stelle con ostilità e paura, anzi lo consideravo come un passaggio utile per segnalare l’improponibilità del modello politico prevalente, dava voce ad un vero senso di disagio popolare e diffuso. Non mi ha nemmeno turbato più di tanto il risultato del 4 di marzo, con quel successo straordinario, perché mi sembrava nell’ordine delle cose. Quello che mi stupisce oggi è la stupidità politica con cui quel patrimonio viene gestito. Salvini è una figura di leadership politica di un populismo politico di destra violento che sta crescendo per l’insipienza degli altri, anche di un Partito Democratico che non si è nemmeno posto il problema di come impedire quella convergenza, ma ha preferito la strada dei pop corn, è una follia.

E’ possibile creare una “contronarrazione” solidale efficace a quella sovranista? Su quali basi?
Io credo che sarebbe suicida tenere separata la questione enorme dei diritti umani dalla questione dei diritti sociali. Queste forme virulente di populismo si alimentano della rabbia per il tradimento nei confronti dei diritti sociali e quindi dei bisogni economici e sociali della gente e risarcisce questa perdita creando capri espiatori nei confronti dei quali ci si può risarcire del proprio declassamento. Ci vuole una intransigente difesa dei diritti sociali di tutti, italiani e non, e dei diritti umani universali. Se noi non difendiamo gli abitanti delle nostre periferie dal degrado economico e sociale non possiamo nemmeno chiedergli di essere accoglienti e generosi nei confronti dei migranti.

“Contratto di governo” : novità o decadenza della politica? Intervista a P. Giacomo Costa (S.J)

Il governo “Conte-Di Maio-Salvini”, il primo governo “populista” della nostra storia repubblicana, con la nomina dei vice-ministri e sottosegretari completa la sua struttura di potere. La compagine governativa fin dai primi passi si trova già nella bufera per la vicenda della nave “Aquarius”. Una vicenda triste, che ha messo in evidenza l’anima sovranista del governo ad egemonia leghista. Al centro dell’azione di questo governo c’è il discusso “Contratto di governo”. Contratto che è stato oggetto di discussione nell’opinione pubblica. Ma quali sono le “radici” di questo “contratto”. Ne parliamo con Padre Giacomo Costa, gesuita, Direttore della prestigiosa rivista “Aggiornamenti sociali” pubblicata dal “Centro San Fedele” di Milano.

 

Padre Giacomo, voi di “Aggiornamenti Sociali”, fin dalla fondazione, rappresentate lo “strumento” di studio della Compagnia di Gesù sulla società italiana, e quindi anche sulla politica di questo nostro Paese. Le chiedo: il voto del 4 marzo ha segnato una svolta radicale del contesto politico. Ovvero l’emergere “prepotente” di due forze populiste, sia pure di “natura” diversa, con la conseguente sconfitta del PD, a sinistra, e dell’arretramento di Forza Italia, a destra. Perché gli italiani si sono rivolti a due forze populiste? C’è una ragione profonda?

Gli elettori non diventano populisti dalla sera alla mattina: più che una svolta radicale, l’esito delle urne può essere visto come un passo, più deciso dei precedenti, lungo la linea evolutiva che la politica ha seguito negli ultimi vent’anni in Italia ma anche nel resto del mondo. Si tratta di mutamenti che hanno modellato elettori ed eletti, e che alcuni politici hanno cavalcato e promosso più degli altri. Un esempio è la “fine delle ideologie”, che è teoricamente nota da tempo e su cui si è molto disquisito, ma le cui conseguenze oggi si fanno sentire in maniera molto più concreta di prima. Nel ’900 essere di destra o di sinistra strutturava l’identità delle persone, oltre che le passioni e i conflitti politici. Oggi la politica continua a suscitare conflitti e passioni: dalla rabbia all’entusiasmo, dalla speranza al disgusto, ecc. ma ciò che definisce le scelte politiche è piuttosto l’interesse personale, inteso a diversi livelli: come tornaconto, ma anche come ciò che piace per simpatia superficiale o che sta a cuore per motivazioni profonde. Un altro fattore è l’evoluzione del sistema mediatico che si va svincolando dal riferimento alla forza dei fatti, rendendo quasi irrilevante la verifica dell’attendibilità delle notizie e della credibilità delle persone. Non a caso si parla sempre più di “postverità”, “fake news”, “hate speach” ecc. In questo quadro, almeno per il momento, Lega e M5S hanno saputo intercettare questi cambiamenti e comunicare in modo da attirare il consenso della gente. Gli altri sono rimasti su altre logiche e modalità comunicative, non del tutto finite, ma antiche.

 

Torniamo, per un attimo al PD. Questo partito, erede delle tradizioni riformiste della sinistra e del cattolicesimo democratico, ha subito una sconfitta pesante. Eppure, con tutti i limiti, quel partito, ad essere onesti, non ha mal governato. Molti provvedimenti presi sono importanti per la società italiana. Cosa non ha funzionato?

Effettivamente nella scorsa legislatura il PD ha goduto di una forte centralità politica e ha promosso passi legislativi importanti. Ma una serie di tensioni mai risolte è scoppiata in occasione (e con il pretesto) del referendum costituzionale. Si è frantumato il delicato equilibrio della proposta renziana, una proposta che potremmo dire “pop-democratica” in quanto provava ad articolare la tradizione democratica con un modo di far politica sempre più “popolare” (se non populista). La sinistra si è così avvitata sulla gestione del potere, dividendosi in correnti ferocemente in lotta tra di loro, con il risultato di mettere in secondo piano progetti e idee e di allontanarsi dai suoi stessi elettori. Oggi questa situazione risulta evidente dal di fuori, ma il partito sembra stentare a rendersene conto. La parabola delle tradizioni in cui si radica il PD è tutt’altro che esaurita, ma per concretizzare queste opportunità il partito deve rivisitare i contenuti delle sue proposte e ancora di più lo stile e la retorica comunicativa che utilizza.

 

Guadiamo al centrodestra. L’emergere prepotente di Salvini sta facendo piazza pulita del “moderatismo” (ammesso che mai lo sia stato) di Forza Italia. Insomma la destra italiana assumerà il volto sovranista della Lega. E’ un processo inarrestabile?

Più che moderatismo, il centrodestra è quello che ha introdotto in Italia la politica spettacolo e la polarizzazione estrema sulla figura del leader e sul rapporto diretto con il popolo: al populismo si arriva per tappe. Questo approccio ha segnato la “discesa in campo” di Silvio Berlusconi e man mano tutti partiti vi si sono adeguati, anche quelli antiberlusconiani, adottando uno stile comunicativo improntato alle logiche dell’intrattenimento per sconfiggere la lontananza e la noia che suscitava la politica della Prima Repubblica. I politici si sono trasformati in star mediatiche, all’inseguimento di un consenso che assume i connotati del gradimento in termini di audience, puntando quindi a piacere, affascinare e sedurre assai più che a proporre idee per il futuro del Paese. Al “carro” berlusconiano si è legata Lega Nord di Bossi, il cui contributo è stato soprattutto la metodica semplificazione della complessità e l’adozione di una prospettiva localistica e anti-intellettualistica. L’obiettivo era catturare il consenso delle persone più smarrite di fronte alla globalizzazione attraverso l’enfasi sugli interessi locali.

 

E veniamo alle vicende politiche di questi ultimi giorni. Ovvero alla nascita, dopo 90 giorni dal  voto, del governo Conte-Di Maio-Salvini. Il “cuore” di questo governo, così dicono i protagonisti, è il “contratto di governo” firmato da Lega e 5stelle. Rappresenta una novità, oppure si inserisce, invece, nella lunga scia della crisi della politica italiana?

È certamente una novità nella biografia dei protagonisti, che comprensibilmente ne sottolineano il carattere epocale. Ma guardando le cose da un’altra prospettiva, anche il «Contratto per il governo di cambiamento» è un passo tutto sommato coerente all’interno di una evoluzione della politica italiana a cui tutti i protagonisti, almeno dell’ultimo decennio, hanno dato il proprio contributo, a partire da chi, come Berlusconi e Renzi, oggi si professa fiero oppositore dell’intesa M5S-Lega. Inseguendosi a vicenda, i partiti hanno finito per scimmiottarsi e imparare il peggio l’uno dall’altro. Scorrendo il Contratto o ripensando al modo in cui la sua elaborazione è stata mediatizzata, è facile riconoscere le dinamiche caratteristiche della politica del XXI secolo, a partire da quel renzismo che pure rappresenta il bersaglio polemico di entrambi i movimenti. In comune hanno ad esempio la retorica e talvolta l’affanno della novità: il cambiamento a cui è intitolato il contratto è la versione “ministeriale” del “vaffa” grillino (e per nulla alieno alla tradizione leghista), ma ha molto da spartire anche con la rottamazione di Renzi. Analogo è il senso di vertigine che suscitano e le domande che ne scaturiscono: è praticabile una via pop alla democrazia o percorrerla conduce a ridurla un simulacro di se stessa?

 

Nel suo editoriale, che apre il nuovo numero della sua rivista, lei afferma che il contratto fa compiere alla politica italiana una sorta di “seconda secolarizzazione” ovvero una svalorizzazione della politica nei confronti dei valori della Costituzione. Può spiegare perché?

Per “seconda secolarizzazione” intendo un movimento che svincola la politica e le dinamiche sociali non dalla religione o dal riferimento al trascendente, ma dall’insieme di valori di cui è tessuta la Costituzione: restano un riferimento poco più che retorico. Non è un caso che fin da subito i costituzionalisti abbiano fatto rilevare l’inconciliabilità di vari elementi del Contratto con la Carta fondamentale.

Un esempio illuminante è l’uso del concetto di dignità. Il n. 19 del Contratto la attribuisce “all’individuo”, utilizzando il termine come sinonimo di “persona”. Ma così, forse inconsapevolmente, si svuota il principio personalista della Costituzione, che intende la dignità non soltanto in riferimento all’essere umano in quanto tale, ma considerando la concretezza dei legami sociali al cui interno si svolge la sua vita. La dignità ha una dimensione sociale che l’individualismo liberale conduce a dimenticare, ma che rappresenta l’unica garanzia per farne una pratica condivisa e non un privilegio di chi può permettersela. La dignità è di tutti e di ciascuno, e negarla a qualcuno minaccia quella degli altri. Per questo non può essere fatta a pezzi e allocata soltanto a chi fa parte dei “nostri”, in opposizione ad “altri” la cui dignità può tranquillamente essere calpestata.

In questo contesto, l’impianto valoriale della Parte I della Costituzione non rappresenta più l’orizzonte al cui interno inserire le diverse proposte politiche, ma un richiamo retorico, talvolta maldestro. La bussola che orienta l’azione del Governo non sono i “Principi fondamentali” (e i valori a cui si richiamano), ma le preferenze che i leader ritengono che i loro elettori abbiano espresso, anche a seguito di una opportuna azione di persuasione. Il problema vero sta però nel fatto che la società nel suo insieme, o almeno una larga parte, sembra aver perso la sensibilità per riconoscere e difendere il ruolo dei valori e dei principi come cornice di riferimento dell’azione politica.

 

Qual è l’anima profonda di questo “contratto”? Che tipo di società disegna?

Siamo di fronte al passaggio a una politica e in qualche modo a una società fondata sugli interessi, in cui ciascuno cerca di portarsi a casa almeno un pezzo del proprio risultato anziché partecipare alla costruzione di un bene comune.

L’impressione è che sia questo il criterio che ha guidato la stesura del Contratto. Non c’è una reale mediazione e quindi nessuna autentica integrazione dei punti di vista dei due contraenti, per cui resta irrisolta la questione di come si concilia la drastica riduzione del carico fiscale (la flat tax leghista) con una serie di misure, anche di welfare, che non possono che far lievitare la spesa pubblica (a partire dal reddito di cittadinanza a 5 stelle). Più che un progetto comune, l’accordo sembra riguardare la spartizione delle sfere di influenza, in modo che ciascuno possa portarsi a casa un risultato che gli permette di gratificare i propri elettori: infatti al n. 1 è sancito l’impegno «a non mettere in minoranza l’altra parte in questioni che per essa sono di fondamentale importanza». Non è un caso allora che sulle questioni eticamente sensibili (fine vita, DAT, ecc.), rispetto alle quali è inevitabile un autentico lavoro di mediazione se le posizioni di partenza sono molto lontane, non ci sia nemmeno una parola.

Non stiamo però dicendo che il Paese stia precipitando nell’amoralità collettiva, né penso che sia utile rimpiangere il passato: bisogna registrare però che si sta smarrendo la consapevolezza che i diversi piani diversi – quello dei valori, quello delle pratiche individuali e sociali, quello delle norme e delle misure pratiche – sono inestricabilmente connessi. La mancanza di coerenza fra i diversi piani rende strutturale la contraddizione tra gli obiettivi perseguiti su ciascuno di essi, impedendone il raggiungimento armonico

 

Una cosa che fa impressione è la visione ambigua, pur tra reiterate affermazioni di “fedeltà”, dei due protagonisti sull’Europa. Anche questo è un segnale….

Anche in questo caso siamo di fronte a un passo in avanti nell’utilizzo di una retorica di contrapposizione che punta a identificare un nemico a cui addossare tutte le responsabilità.È uno sport diffuso in tutti i Paesi, che ha portato alla nascita di un vero e proprio genere letterario. Va riconosciuto che anche l’UE sembra fare di tutto per aiutare i propri detrattori, o almeno sembra aver perso la capacità di ispirare e trasmettere entusiasmo. Anche il discorso europeo si è in qualche modo “secolarizzato” nel senso che dicevamo prima, ponendosi sempre più sul piano degli interessi e sempre meno su quello dei valori. Ma non si può costruire una casa comune titillando l’egoismo o l’autointeresse. Per l’Europa è una prospettiva perdente.

 

Qual è il “peccato mortale” del sovranismo?

Più che di peccato parlerei di forza di seduzione. Penso che sia l’enfasi su un “noi”, di cui non sono chiari i criteri di definizione, e che conduce rapidamente dal tentativo, anche legittimo, di sottolineare identità e appartenenza a una retorica che identifica diverso con ostile. I migranti diventano il capro espiatorio ideale da questo punto di vista e infatti negli ultimi mesi la cronaca registra un aumento della violenza nei loro confronti. E’ evidente come la dignità affermata in linea di principio non è riconosciuta a tutti. Ma questa – lo dimostra la storia del ‘900 – è una contraddizione e molto spesso diventa una trappola. All’enfasi sulle differenze tra “noi” e tutti gli altri si accoppia di solito – e certamente nel caso del Contratto per il governo del cambiamento – l’incapacità o l’indisponibilità di riconoscere e fare i conti con il pluralismo radicale che ormai segna le società avanzate, e quindi con il tema del dialogo e dell’integrazione delle differenze e delle minoranze.

 

Attraverso quali percorsi è possibile, realisticamente, rinnovare la politica italiana? C’è spazio per i cattolici?

Innanzi tutto dobbiamo imparare a guardarci da tre tentazioni, peraltro ricorrenti nella storia del Paese. La prima è quella della nostalgia e del rimpianto per un’epoca passata dove la politica aveva la P maiuscola – ma ce ne lamentavamo anche allora! – opposta ai tempi bui dell’attuale decadenza. La seconda è quella di rimanere alla finestra, in attesa di veder fallire – ancora una volta lamentandosi – anche questo tentativo, salvo poi ritrovarsi con il problema di dove tracciare un segno sulla scheda delle prossime elezioni. Due atteggiamenti che è facile deridere superficialmente, ma di cui vanno indagate le ragioni profonde e le componenti emotive: quello che li accomuna è l’incapacità di generare futuro. La terza tentazione, specie per chi è in politica, è quella di provare a costruire contenitori identitari, giocando ancora un volta la logica del “noi” e partecipando alla “spartizione” delle sfere di influenza.

Credo però ci sia spazio anche per un altro modo di operare, a partire da un vero e proprio atto di fede nel fatto che la capacità delle persone di riconoscere il bene e di esserne attratta non si è spenta definitivamente. Gli esempi di come siamo alla ricerca di senso e di umanità sono molteplici, quotidiani. Ottengono scarsa attenzione, ma non per questo non toccano in profondità.

 

Ma concretamente in che direzione possiamo incanalare lo sforzo di rinnovamento?

Una prima pista di lavoro fondamentale – e questo vale in particolare per chi opera nel mondo della comunicazione – è la ricerca di un linguaggio che consenta anche oggi di narrare il bene, o, meglio, di entusiasmare per il bene, riuscendo a parlare alla gente e a comunicare una prospettiva profondamente umana che rimette al centro la fiducia, i legami e persino il punto di vista di chi è scartato. Una volta che questa prospettiva sarà radicata nella società, la rincorsa al consenso obbligherà anche la politica ad adottarla. Oggi si sta spegnendo il richiamo del lessico dei valori e dei diritti, mentre è grande quello degli interessi, dei gusti e delle opportunità, dove il “sentire” ha un grande peso. Non è un cambiamento da stigmatizzare superficialmente: in fondo lo “stare a cuore” può rappresentare un attivatore di risorse emotive, di creatività e di impegno almeno pari alle ideologie del passato. Si tratta quindi di individuare i registri su cui anche oggi elaborare proposte culturali capaci di aiutare l’interpretazione della realtà nella sua interezza, riorientando il discorso e l’immaginario collettivo e rimotivando all’impegno per la costruzione di un sentire condiviso, anche in situazioni di crescente pluralismo sociale, culturale e religioso.

Il secondo filone è quello dell’impegno diretto, della mobilitazione per la tutela della dignità e dei diritti di tutti, su cui occorrerà probabilmente fare un passo in più. Anche in questo caso non partiamo da zero, ma da un capitale autenticamente sociale di tante iniziative di partecipazione e di lotta contro il degrado, contro la corruzione, la criminalità e le mafie di cui il nostro Paese è ricco. La potenza di questo filone è di far sperimentare la forza del legame quando si agisce a favore di altri, trascendendo l’orizzonte del proprio orticello.

Se il sindacato vuole avere un futuro. Un testo di Pierre Carniti

Pierre Carniti (Augusto Casasoli /A3/CONTRASTO)

Pubblichiamo, per gentile concessione della Testata on line eguaglianzaeliberta.it , uno degli ultimi scritti di   Pierre Carniti, scomparso ieri, a Roma, all’età di 81  anni. Carniti, uno dei grandi protagonisti delle lotte sindacali degli anni ’70 – 80, dapprima  come leader dei metalmeccanici e poi da Segretario generale della Cisl, lascia in eredità al movimento sindacale italiano un patrimonio di idee riformiste, fatto di scelta coraggiose, e uno stile sindacale unico. I funerali del grande sindacalista si svolgeranno domani a Roma (alle ore 10) presso la Chiesa di Santa Teresa d’Avila (Corso d’Italia 37).

Ha un futuro il sindacalismo confederale? Intorno a questo domanda è apparsa negli ultimi anni una consistente letteratura, sia nazionale che internazionale. Dipinti spesso in passato come forti e minacciosi, i sindacati dei paesi avanzati vengono attualmente considerati in declino. Secondo numerosi analisti, il declino sarebbe causato dalla aggressività delle politiche neo-liberiste, dalla integrazione globale dei mercati, dalla frantumazione del mercato del lavoro.

Nulla autorizza però a ritenere che il destino del sindacato sia segnato in modo chiaro ed ineluttabile. Certo, in alcuni paesi (specialmente negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia) si è già verificata una significativa diminuzione delle adesioni. In Italia la Cgil ha ammesso un calo degli iscritti: secondo un rapporto interno, ad abbandonare la confederazione sarebbero soprattutto i giovani ed i precari. Per la Cisl e la Uil non sono stati resi disponili dati. Ma si può presumere che anche per loro si stiano verificando le tendenze in atto nella Cgil. Questo indicatore negativo è un segnale di perdita di influenza del sindacato e di un decadimento al quale si dovrebbe cercare di porre rimedio con l’attivazione di strategie appropriate ed efficaci. Purtroppo per ora non ci sono segni di una evoluzione in questo senso.

La prima misura che dovrebbe essere presa in considerazione (ed anche la più ovvia) consiste in un sindacalismo più inclusivo. Capace cioè di rivolgersi concretamente a tutti i segmenti del lavoro che cambia e di rappresentare quindi anche i lavoratori temporanei ed atipici. Vale a dire quella quota del mondo del lavoro (sempre molto consistente) che non rientra nelle tradizionali modalità d’impiego ed a cui il sindacato ha storicamente dato voce. Ovviamente si tratta di una iniziativa facile da enunciare e più difficile da realizzare. Ma su cui è indispensabile investire creatività e risorse. Sia economiche che umane.

La seconda è quella di conciliare la definizione ed il perseguimento di obiettivi di equità sociale con una puntuale tutela delle condizioni di lavoro e della sua remunerazione. A questo fine si impongono alcune considerazioni, sia sulle condizioni che possono permettere al movimento sindacale di incidere sulle scelte di politica economica e sociale, che sul rapporto tra concertazione e contrattazione.

Incominciamo da quest’ultimo aspetto. Con alti e bassi, la concertazione ha alle spalle una esperienza che dura ormai da oltre un quarto di secolo. I primi esperimenti risalgono infatti al periodo 76/79, con i governi di Unità nazionale presieduti da Andreotti. Altri esercizi di concertazione sono stati realizzati con il governo Fanfani (1983), poi con il governo Craxi (1984), infine con il governo Ciampi (1993). In tutte queste occasioni la concertazione si è realizzata sulla base di uno scambio politico. Nella prima fase l’oggetto dello scambio è stata la moderazione salariale in alternativa a politiche monetarie restrittive (diversamente inevitabili in conseguenza dell’impennata dell’inflazione e del mutamento delle ragioni di scambio indotto dalle crisi petrolifere). Poi la predeterminazione dell’inflazione, rapportandovi coerentemente tutte le indicizzazioni, dai prezzi, alle tariffe, alle rendite, alla dinamica del salario nominale (inclusa la scala mobile). Infine l’abolizione della scala mobile per accompagnare l’ingresso della lira nell’euro e consentire una politica economica tendenzialmente più espansiva, in funzione di una maggiore occupazione.

Come confermano tutte queste esperienze, la prima cosa da rilevare è che lo scambio politico presuppone sempre un elevato grado di centralizzazione delle relazioni sindacali. Ma proprio per questa ragione, è del tutto evidente che si tratta di una particolare modalità di rapporti utilizzabile solo in situazioni particolari e per periodi di tempo circoscritti. Se, al contrario, la concertazione dovesse costituire una gabbia permanente per le relazioni sindacali, diventerebbe inevitabile mettere in conto il rischio di una disintegrazione delle organizzazioni sindacali e conseguenti iniziative rivendicative centrifughe. Cioè iniziative destinate a svilupparsi fatalmente al di fuori e persino contro gli impegni assunti dal sindacato. Cosa che costituisce sicuramente un problema.

La seconda considerazione è che concertazione e dialogo sociale, contrariamente a quanto si deduce dalla vulgata mediatica, o anche dalle dichiarazioni di numerosi sindacalisti, non sono affatto sinonimi. Non si tratta di una banale questione semantica. La concertazione si basa infatti sull’assunzione di obblighi e vincoli alle rispettive politiche, reciprocamente concordati e verificabili, in funzione del raggiungimento di obiettivi condivisi e formalizzati. Mentre il dialogo sociale può essere definito una sorta di clausola di stile nel rapporto tra le parti. E’ infatti un atteggiamento di interlocuzione e di reciproca comprensione. Basato sul desiderio di capire e farsi capire. Nulla impedisce che possa diventare funzionale al chiarimento ed all’intesa. Ma può anche semplicemente risolversi nel fatto che ciascuno si limita a motivare la propria opinione. Evitando così, come ama dire Renzi, inutili perdite di tempo. Che non a caso si limita a convocare le parti alle 8,30 a Palazzo Chigi chiudendo l’incontro alle 9. Cioè il tempo per un caffè. Perché il premier ha tanto altro da fare. Comportamento riprovevole che non lascia nessuna traccia sulle politiche che saranno adottate. E’ la conferma che il dialogo non è altro che una forma di consultazione per valutare la reazione dell’interlocutore in rapporto all’assunzione di determinate misure od iniziative da parte del governo. Si può dire quindi che, in definitiva, il dialogo è soprattutto una modalità di conoscenza. Sul piano dei rapporti istituzionali è, in qualche misura, l’equivalente di ciò che sono i sondaggi di opinione sul piano politico.

Un’altra confusione che andrebbe evitata è quella tra concertazione e contrattazione. La concertazione è lo strumento (o la modalità) con cui affrontare e risolvere problemi che hanno implicazioni macroeconomiche e la cui soluzione dipende perciò dalla condotta di tutti i soggetti coinvolti (governo, sindacati ed imprese; da qui la necessità di accordi triangolari) ed ha lo scopo di distribuire, in modo equo e socialmente condiviso, i costi dell’aggiustamento economico. La contrattazione riguarda invece la regolazione delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, o dei pensionati. Riguarda, in sostanza, le relazioni bilaterali ed è, in primo luogo, influenzata dai reciproci rapporti di forza.

Venendo al concreto delle recenti vicende sociali, come già accennato, si è verificata una situazione particolare. Fin dal momento del suo insediamento il governo Renzi, forte di una larga maggioranza alla Camera e convinto della propria autosufficienza, ha proclamato l’intenzione di farla finita con la concertazione, accompagnando il proposito di fare da solo con una generica disponibilità al dialogo sociale. A loro volta Cgil, Cisl ed Uil, in diverse occasioni, hanno deplorato la determinazione del governo di sbarazzarsi del metodo della concertazione. Tuttavia non è mai risultato particolarmente chiaro su cosa esse avrebbero voluto concertare. In effetti una esigenza risulterebbe evidente. Ed è quella di una necessaria revisione dell’accordo triangolare del 1993. Accordo che, come il protagonista del Cavaliere inesistente di Italo Calvino, era morto, ma continuava a combattere.

La ragione è semplice. Con quell’accordo triangolare è stata infatti abolita ogni forma di indicizzazione dei salari. Indicizzazione che, per quasi mezzo secolo, era stata assicurata dall’istituto della scala mobile. L’abolizione della scala mobile ha però lasciato aperto il problema di come garantire la difesa del potere d’acquisto e quindi del salario reale. In effetti i contraenti dell’accordo del 1993 avevano immaginato di poterlo risolvere fissando a quattro anni la durata dei contratti nazionali, con una riapertura esclusivamente salariale tra un contratto e l’altro. I risultati non sono stati però quelli attesi. A tanti anni di distanza il motivo risulta abbastanza chiaro.

A partire dal 1993 si è passati infatti da una indicizzazione trimestrale automatica dei salari per mezzo della scala mobile, ad una indicizzazione biennale teorica attraverso la contrattazione. Teorica, sia perché gli incrementi salariali sono stati legati alla inflazione programmata, che da diversi anni è risultata sensibilmente inferiore alla inflazione reale. Ma anche perché la stessa inflazione reale viene misurata sulla base dell’indice Istat dei consumi. Indice che ha poco a che fare con i consumi effettivi delle famiglie dei lavoratori e quindi con il potere d’acquisto dei salari. Infine, teorica perché gran parte dei lavoratori precari (il cui numero è in continuo aumento) e la maggior parte di quelli addetti ai servizi all’impresa (sempre più decentrati fuori dalle aziende) sono, di fatto, esclusi dalla contrattazione.

Questo spiega perché il salario reale continua a diminuire. Il dato appare così evidente che la maggior parte degli analisti e dei commentatori riconoscono ormai esplicitamente che è aperta una questione salariale. Questione che accresce visibilmente inquietudini e sofferenza sociale. Con rischi ed esiti del tutto imprevedibili. Naturalmente non è la prima volta (e non sarà nemmeno l’ultima) che emerge un problema salariale. Problema che, ovviamente, può essere affrontato in mille modi diversi. Compresa la guerra di corsa. In tal caso però, si devono mettere in conto le conseguenze: di un rischioso massimalismo salariale per alcune categorie e settori; dei suoi indesiderabili effetti economici; di un insensato e dannoso aumento delle diseguaglianze.

Per scongiurare questi pericoli appare perciò, non solo ragionevole, ma necessaria una revisione dei contenuti dell’intesa del 1993. La revisione dovrebbe essere fatta tenendo d’occhio due obiettivi. Primo, poiché ci sono settori esposti alla concorrenza internazionale ed altri protetti, la contrattazione dovrebbe cercare di evitare che si formino gravi sperequazioni e diseguaglianze. Questo significa che nei settori protetti potrebbero essere previste, ad esempio, sia clausole di raffreddamento del conflitto, che procedure vincolanti di mediazione affidate ad autorità terze. Secondo, andrebbe tenuto presente che cresce il numero dei lavoratori scarsamente o per nulla coperti dalla contrattazione. I soli lavoratori parasubordinati, iscritti nella apposita gestione separata dell’Inps, sono aumentati notevolmente. Ad essi si deve aggiungere un buon numero di extracomunitari regolarizzati ed ovviamente tutti quelli non regolarizzati. Questa evoluzione dovrebbe sollecitare l’introduzione di misure come il salario minimo garantito; indicizzato al costo della vita, oppure rivalutato annualmente tramite contrattazione interconfederale. Provvedimento non più rinviabile se pensiamo ai casi come quelli di Paola Clemente, di 49 anni, morta di fatica nei campi di Andria, occupata nell’acinellatura per 27 euro al giorno. O a tutti quelli intermediati dal caporalato (nelle imprese agricole, ma non solo) che determinano forme inconcepibili di sfruttamento, che arrivano fino allo schiavismo. Soprattutto nel caso di molti extracomunitari non regolarizzati.

Altrettanto urgente da sciogliere è il nodo cruciale circa le condizioni che possono consentire al sindacato di incidere sulle scelte di politica economica e sociale. A questo riguardo è però essenziale un chiarimento preliminare relativamente ai compiti che esso si propone di assolvere. Se il suo fulcro è la determinazione delle condizioni di lavoro e di salario, non c’è dubbio che esso può benissimo essere realizzato anche in un quadro di pluralismo organizzativo. Sia pure con una duplice avvertenza. Primo: chi pensa sia utile difendere una prospettiva di pluralismo sindacale, dovrebbe fare qualche conto con la democraticità dei propri ordinamenti interni. In particolare chi esalta la dimensione associativa del sindacato avrebbe il dovere di sviluppare una democrazia associativa che appare oggi gravemente claudicante. Questo impegno non corrisponde a esigenze virtuose, o moralistiche. Ma tiene semplicemente conto dello straordinario impatto che una consistente burocrazia sindacale, i suoi destini ed i suoi interessi, hanno nei confronti dei soci. Tanto più quando i motivi personali per associarsi possono risultare del tutto indipendenti da un disegno di trasformazione sociale e dunque, in qualche modo, da un sistema di valori.

Qui viene la seconda osservazione. Nella determinazione delle condizioni di lavoro e di salario, il pluralismo sindacale, entro certi limiti, può esplicarsi abbastanza liberamente. Senza particolari danni e quindi anche senza insuperabili drammi. In un contesto di sufficiente libertà ed anche di accettabile legalità, si possono cioè sperimentare accordi separati ed anche conflitti separati, nella ragionevole certezza che alla fine essi possono produrre un po’ di irrazionalità, ma non scardinano nulla. Per lo meno nulla di decisivo. Certi scioperi, soprattutto nei settori dei servizi che toccano più direttamente la situazione dei cittadini, possono essere disapprovati, ma non ritenuti illegittimi, quando si svolgano nel rispetto di alcune regole condivise e tengano conto della rappresentanza.

La questione vera è però un’altra. Circoscrivendo il compito ed il ruolo del sindacato a salari e condizioni di lavoro il sindacalismo confederale perde gran parte della sua ragione d’essere. Perché il sindacalismo corporativo, cioè senza vincoli di carattere sociale e dunque di valori, può essere più disinvolto e quindi anche più capace di ottenere risultati teoricamente più significativi. Ma se questa diventa la prospettiva essenziale del conflitto sociale bisogna mettere in conto anche un pluralismo che non si articolerà necessariamente intorno od ai margini delle tre grandi confederazioni. Nulla riuscirebbe infatti ad arginare una frantumazione corporativa, per molti versi già tendenzialmente in atto. Basti pensare soltanto alla proliferazione di contratti nazionali (oggi oltre 700), che andrebbero ridotti a non più di qualche decina.

Chi, al contrario, ritiene che l’equità, la giustizia sociale, la lotta alle diseguaglianze ingiustificate, siano compiti da perseguire anche nella società contemporanea, e che quindi permangano le ragioni di fondo che hanno storicamente prodotto l’esperienza del sindacalismo confederale, non può non fare i conti con l’esigenza di unità. Infatti, senza unità il sindacalismo confederale, prima ancora che sulla possibilità di soluzione dei problemi, non è nemmeno in grado di influire sull’agenda dei temi da discutere. E se esso si limita a reagire di rimessa alle iniziative che prende il potere politico o quello economico, diventa pressoché inevitabile il rischio che si produca una divisione tra quanti pensano che la sola cosa da fare è organizzare la protesta e quanti pensano invece che occorra, innanzi tutto, lavorare alla riduzione del danno. Le cose naturalmente non si semplificano, ma al contrario si complicano, quando al confronto sulle iniziative altrui ci si presenta in ordine sparso. Senza piattaforme comuni. Si capisce bene che le piattaforme unitarie non costituiscono una cauzione assoluta contro il rischio di accordi separati. Ma è sicuramente vero l’opposto. Infatti, salvo un miracolo, le piattaforme separate non producono mai un accordo unitario. In ogni caso, il dato incontrovertibile, suffragato dai fatti (recenti e meno recenti) conferma che, in particolare sui temi di politica economica e sociale, la divisione genera solo un risultato: l’impotenza.

Stando così le cose, non servono a nulla gli auspici affinché il pluralismo sindacale riesca comunque a trovare, di tanto in tanto, punti di approdo unitario. Bisogna anche dire chiaramente che la situazione in atto non può scoprire un alibi nel fatto che l’esperienza unitaria è fallita persino in momenti che parevano essere più propizi. Quanto meno in relazione all’orientamento prevalente tra i lavoratori. Tuttavia, il richiamo a precedenti insuccessi appare essenzialmente strumentale. E quindi privo di senso. Intanto perché esso prescinde da un elemento decisivo. Vale a dire il peso che nelle vicende pregresse ha avuto il comunismo, come movimento politico organizzato. Sia per la sua pretesa di interpretare il primato della politica come primato del Partito, che per la regola del centralismo democratico. Regola, secondo la quale, la discussione era libera, ma la solidarietà con il centro al termine della discussione era obbligatoria.

Ormai però, da oltre un quarto di secolo (tanto a livello internazionale che nazionale) il comunismo è scomparso. Quanto meno come movimento politico organizzato. Rimane certamente qualche nostalgico, qualche solitario devoto, ma ovviamente senza alcuna effettiva capacità di influenza sulla dinamiche dei movimenti collettivi. Cos’è allora che può ancora giustificare il persistere del pluralismo di organizzazioni sindacali confederali? La risposta degli addetti ai lavori (in particolare del ceto sindacale, sempre più chiuso nell’ermetismo dei suoi dogmi) è che la spiegazione deve essere ricercata nell’esistenza di differenze sulle politiche. Si tratta tuttavia di un punto di vista del tutto evasivo e perciò privo di persuasività. Infatti le differenze sulle politiche sono sempre esistite. Esisteranno sempre. Esistono anche all’interno di ogni organizzazione. E quando non si manifestano è un brutto segno. Perché vuol dire che si discute troppo poco. Vuol dire che prevale il conformismo, che non è mai il miglior coadiuvante della democrazia interna.

Il problema vero, dunque, non sono le differenze. Del resto il progresso umano è avvenuto perché le diversità tra una cultura ed un’altra, tra un paese ed un altro, sono sempre state assunte come una ricchezza individuale e collettiva insieme. Ovviamente non tutte le diversità sono uguali, non tutte le diversità sono fruttuose, non tutte le diversità sono interessanti. Dobbiamo quindi concepire le diversità non solo come indubbio pregio dell’esistenza degli esseri umani, ma funzionali ad un progetto, ad una idea, ad uno scopo, ad un interesse. E’ questo il motivo che rende la diversità di opinioni in un sistema democratico cosa fondamentale. Se si esclude qualche eccentrico e settario noi siamo oggi pienamente consapevoli che la ragione non sia tutta da una parte e dall’altra il torto. Anche se a volte sembra difficile crederlo. Specialmente in Italia. Ma allo stesso tempo siamo sicuri che dal punto di vista cognitivo, della consapevolezza, è un bene che ci sia questa differenza. Perché nelle disparità dei pareri, nelle discussioni, la diversità delle opinioni fruttifica, è generativa. Ovviamente se ciò avviene in un contesto di democrazia. Lo strumento della democrazia diventa infatti il ponte tra individuale e collettivo. Questo e non altro distingue una diversità futile, superflua, inutile o qualche volta addirittura dannosa, da una diversità funzionale al sistema in quanto tale. Perciò la cosa che conta non è la presa d’atto della disparità di opinioni, ma dove si può o si vuole arrivare. Quindi l’esistenza di snodi costruttivi per affrontare le difficoltà che si riscontrano nei percorsi che intraprendiamo. In quanto allora la democrazia è in grado di porre le differenze di opinioni a frutto di una maggiore consapevolezza collettiva.

Per il sindacalismo confederale il problema dunque non è dato dall’esistenza di diversità, di differenti opinioni, deducendone un alibi per l’inazione, è semmai quello di predisporre un meccanismo (nel nostro caso modalità democratiche condivise) che le metta insieme e le faccia diventare una volontà collettiva unica, più alta e più coesa rispetto alla incapacità delle singole organizzazioni di affrontare i problemi pubblici. Stando così le cose la questione che sta di fronte al sindacalismo confederale non è ovviamente quella di ripiegarsi su sé stesso per recriminare sull’esistenza di disparità di opinioni, autocondannandosi all’impotenza ed alla paralisi, quanto piuttosto di stabilire con quali mezzi e metodi, quando le differenze si manifestano, possono essere ricondotte a sintesi unitaria. Il nodo essenziale, allora, è semplicemente quello di stabilire se le organizzazioni sindacali hanno la volontà e la capacità di darsi norme che le mettano in grado di decidere assieme. Soprattutto in presenza di posizioni contrastanti.

A questo fine le regole canoniche della democrazia (cinquanta più uno delle teste) possono risultare inadeguate a stabilizzare una pratica di unità d’azione. Perché venendo da una lunga stagione di divisioni è difficile che una maggioranza di voti sia sufficiente a garantire l’accettazione di un risultato cooperativo, o conflittuale, sostenuto da chi vince il confronto. Decisioni a maggioranza qualificata potrebbero risultare più rassicuranti ed appropriate. Almeno per accompagnare la fase di transizione verso approdi unitari più strutturati e definitivi.

Particolare circospezione e cautela andrebbe anche utilizzata circa l’impiego di strumenti referendari. Soprattutto quando escono dal perimetro dell’azienda per coinvolgere l’insieme dei lavoratori. Sia per l’impossibilità di attivare controlli effettivi sul loro esito reale. Sia soprattutto per impedire che, in assenza di garanzie effettive in ordine al loro svolgimento, la sopraffazione finisca per conculcare la ragione. A nulla infine, se non a pasticciare le cose, servono le stranezze di formule oscure come la democrazia di mandato. Sostitutiva della democrazia rappresentativa. A maggior ragione quando per la così detta democrazia di mandato, viene invocato il presidio di una legislazione regolatrice. Che finirebbe soltanto per aggiungere problema a problema, in quanto il sindacato finirebbe per essere subordinato ad un regime di autorizzazione e di controllo statale ed ai suoi mutevoli equilibri politici. Con inevitabile affievolimento della sua autonomia, della sua libertà, della sua efficacia.

In estrema sintesi, tutto induce a riconoscere che il proposito di ridurre il deficit di incidenza del sindacalismo confederale in una società sviluppata come l’Italia comporti la necessità di agire: tanto sulle difficoltà ad includere i marginali ed i flessibili per evitare una contrazione della sfera sociale in cui l’azione collettiva riesce a contare; quanto sulla capacità di dotarsi di regole condivise (autonome, non eteronome) per decidere assieme.

Chi intende accingersi a questo compito dovrebbe tenere presente un istruttivo dialogo contenuto in Alice nel paese delle meraviglie. Precisamente là dove Alice chiede al gatto Cheshire: “Vorresti per favore dirmi quale strada devo percorrere da qui”? Ed il gatto le risponde: “Dipende da dove vuoi andare”. Perché proprio, come per Alice, anche per il sindacato la cosa essenziale è quella di decidere, innanzi tutto, dove vuole andare. Sia chiaro: in gioco non c’è la sua sopravvivenza, ma il suo ruolo. Infatti, come tutte le istituzioni, anche il sindacato può sopravvivere benissimo a sé stesso. Può benissimo sopravvivere all’abbandono di compiti che pure ha assolto in altre fasi storiche. Ma se tra i suoi scopi decide di mantenere anche il proposito di incidere direttamente sullo sviluppo economico e sociale, per assicurare una più equa distribuzione sia del reddito che delle opportunità di lavoro, allora deve compiere scelte conseguenti. La prima delle quali è che l’unità non può ridursi ad una invocazione, ad un mito, ma deve diventare il terreno di una conquista quotidiana.

E’ probabile che gran parte della letteratura sul declino sindacale esprima più un auspicio che la narrazione di un fatto. Tuttavia sembra difficile negare che il sindacalismo confederale stia attraversando un periodo di nuvole basse e si trovi alle prese con un problema di identità. Che è sempre un problema di strategia. Naturalmente si può pensare che esistano molti modi per cercare di risolverlo. Difficile però anche soltanto provarci, se non si dovesse almeno incominciare ad investirvi unitariamente più risorse e più pensiero.

Dal Sito: http://www.eguaglianzaeliberta.it/web/content/se-il-sindacato-vuole-avere-un-futuro

LE INCOGNITE DI UNA LEGISLATURA. INTERVISTA A FABIO MARTINI 

Fabio Martini (Ansa)

Fabio Martini (Ansa)

Il governo del “cambiamento” è partito e così anche la legislatura. Ma i 90 giorni di crisi, tra i più lunghi della storia repubblicana, gettano numerose incognite sullo sviluppo di una legislatura che si presenta difficile. Quali sono i nodi politici? Come si cercherà di sbrogliarli? Ne parliamo in questa intervista con Fabio Martini, cronista parlamentare ed editorialista del quotidiano “La Stampa” di Torino.

 

 

 

 

 

 

 

 

Fabio Martini, il governo Conte-Salvini-Di Maio ha giurato, la prossima settimana otterrà la fiducia delle camere sarà, così, nel pieno dei poteri. Come si sa è un governo partorito, molto faticosamente, 90 giorni dopo le elezioni del 4 marzo. È stata una delle crisi più difficili della storia repubblicana.  Ma questa crisi porta con sè anche incognite istituzionali e politiche, le due cose si intrecciano, di non poco conto per la democrazia italiana. Incominciamo con quella politica. Riguarda, infatti, il ruolo del presidente del consiglio conte. Tra due pesi massimi rischia di passare permali mero esecutore. Non vedi questo rischio?
Questo è il primo governo con tre premier. I due diarchi, i leader che separatamente hanno vinto le elezioni, più il professore che hanno scelto, come compromesso al ribasso perché nessuno dei due avrebbe potuto “sopportare” la primazia dell’altro. Di solito il Presidente del Consiglio ha un ruolo propulsore, in questo sembrerebbe averne uno da esecutore. Il professor Conte è totalmente privo di esperienza politica. ma se dimostrasse personalità, potrebbe svolgere un ruolo inedito ma significativo: quello di mediatore tra i due diarchi. Bisognerà vedere la qualità di quelle mediazioni. Dignitose? Al ribasso? Inesistenti? La scommessa del professore è tutta qui.

La seconda incognita riguarda, invece, il rapporto tra lega e 5stelle, o per meglio dire, tra il protagonismo di salvini e quello di di maio. Salvini si e’ dimostrato piu’ abile politicamente. Anche nei suoi primi passi si sta allargando. Continua nella sua campagna elettorale permanente contro l’immigrazione clandestina . Non sara’ facile per di maio, aldila’ dei reciproci sorrisi, contenere il protagonismo salviniano. Pensi che si sviluppera’ una “guerriglia” mediatica tra i due?
Questa è davvero l’incognita più difficile da leggere. I due condividono due interessi: far marciare i propri dossier, glissando su differenze che potrebbero rallentare la marcia del governo. Per saper coniugare questi due interessi servirà non solo istinto di sopravvivenza ma anche una grande sapienza politica.

Sulla compagine governativa  le incognite riguardano, oltre alla persona del presidente del consiglio, le correnti all’interno  del governo. Il disegno del  presidente mattarella e’ stato quello di contenere, “istituzionalizzare, il “populismo”.  E’ un equilibrio non facile  tra le varie parti. Reggerà?
Le differenze ci sono, perché la Lega punta in prospettiva ad occupare il fronte destro e i Cinque Stelle quello sinistro. All’inizio si daranno manforte, soffocando i diversi interessi politici. Ma avranno entrambi un grande “nemico”: quel sistema di comunicazione battente e invadente, che sinora è stato benzina nel motore populista e che presto, per troppo uso, potrebbe trasformarsi in sabbia.

Ma l’incognita più grande resta il “contratto di governo”. Un contratto estremamente costoso. Domanda: mettere un ministro, area ex socialista confluita in forza italia, pensi che porterà ad un conflitto con i due maggiorenti politici?
Anche nel caso del ministro dell’Economia occorrerà valutarne il peso della personalità. Sarà esecutore o mediatore al rialzo? E siamo sicuri che il professor Savona si contenterà di occuparsi di direttive europee?

Il rapporto con l’Europa è un’altra incognita, nonostante tutte le rassicurazioni…
In una prima fase l’Unione europea avrà un atteggiamento inclusivo, cercherà di capire che tipo di interlocutore si troverà davanti. Nel caso in cui si dovesse confermare la propensione al debito a piè di lista, a quel punto i rapporti cambieranno. Ma per ora ci si misura la palla. Da entrambe le parti.

Pero’ Macron e Merkel hanno   avuto abboccamenti con il premier conte. Si dice che Macron sia interessato a costruire un asse con conte per rilanciare la riforma del progetto europeo…..una bella opportunità . Che ne pensi?
Macron, oltre alla riforma della ziona euroi, ha un solo pensiero: evitare che l’Italia diventi un modello per i sovranisti di casa propria. Ecco perché è stato così accogliente col professor Conte, anche quando era un semplice presidente incaricato. Quella telefonata irrituale è rivelatrice. La Francia sarà inclusiva se anche l’Italia lo sarà, almeno un po’. Altrimenti i francesi diventeranno escludenti e aggressivi, sia con modalità imprevedibili. I Cinque Stelle europeisti a fianco di Macron? Prematuro. Devono affrontare nel maggio 2019 una campagna elettorale europea con toni aggressivi e, se la spunteranno, allora se ne riparlerà

L’altra grande incognita riguarda l’opposizione, Pd e fi. Per quanto riguarda fi (quello che rimane) ormai è quasi completamente “mangiata” dalla lega. Trovi inesorabile questo “destino”? Che farà Berlusconi (oltre a mettere in salvo le tv)?
Da qui alle elezioni Europee, uno degli obiettivi di Savini sarà quello di mangiarsi un’altra parte di elettorato forzista. A Berlusconi, che da tempo avrebbe dovuto indicare un erede dinamico come lo era lui 30 anni fa, non resta che sperare in un fallimento del nuovo governo.

L’ultima grande incognita è il Pd . Si è scritto di tutto e di più. Qual è una realistica via d’uscita  dalla  sua crisi?                                                                                                                         
Nell’imminenza di uno scontro elettorale, sarebbe stata utile un’Alleanza Repubblicana la più larga possibile, guidata da Paolo Gentiloni, Ma se l’orizzonte delle elezioni si allontana, per la sinistra di governo diventa prioritario chiarirsi le idee, avere un’idea dell’Itala come è e come si vorrebbe, ridefinire un’identità credibile per futuro. Senza avere l’ansia della rivincita.