La sfida del nuovo governo: un europeismo popolare. Intervista a Giorgio Tonini

Matteo Renzi, con la sua scissione, sta agitando le acque della politica italiana. Ma non c’è solo Renzi. Anche Matteo Salvini, con la sua voglia di vendetta contro il Premier Conte.   Con quali conseguenze? Ne parliamo con Giorgio Tonini, Capogruppo Pd nel Consiglio della Provincia autonoma di Trento e della Regione Trentino-Alto Adige.

Giorgio Tonini, lei è stato un protagonista del PD “renziano” come altri dell’area liberal (penso a personalità come Morando e Ceccanti). Pochi giorni fa avete tenuto a Orvieto la consueta assemblea annuale dell’associazione “Libertà Eguale”. Concludendo quella manifestazione lei ha definito la scissione di Renzi in modo molto caustico: “è peggio di un crimine, è un errore politico, con l’aggravante dei futili motivi”… Perché non ha scelto di seguire Renzi?

Perché io credo nel progetto del Partito democratico, non in questo o quel leader. I leader passano, i partiti restano. Il nostro “fratello maggiore”, il Partito democratico americano, è lì dal 1828: quasi due secoli. Ed ha avuto come leader personalità della statura di Roosevelt e Kennedy, Clinton e Obama. A nessuno di questi giganti sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di fare una scissione per fondare un partitino personale. È il grande soggetto politico il campo da gioco nel quale si decide la partita. Si può vincere o perdere la battaglia interna, ma se chi perde se ne va, di solito combina poco o nulla e intanto indebolisce la credibilità del partito e in definitiva la stabilità della democrazia, che non può funzionare senza grandi e duraturi partiti politici. E tanto meno può funzionare, nella democrazia, il riformismo: non si fanno riforme senza grandi partiti, stabili nel tempo.

Pensa che la scissione recluterà altri elementi?

Non lo so, non sono più in parlamento e frequento poco il partito nazionale. Mi auguro di no. Purtroppo Renzi, come prima di lui Bersani e D’Alema, si è messo nella triste condizione di dover essere dannoso al PD per non essere irrilevante.

Senza il “renzismo” (inteso qui come la capacità di gettare lo sguardo oltre i confini classici della sinistra) il PD è ancora il PD? Pensate voi dell’area liberal di supplire a questo vuoto?

Ogni uscita rende il PD più piccolo e più povero. Finora tutte le scissioni sono state operazioni a somma negativa: hanno concorso a far perdere al PD molti più consensi di quelli che i partitini scissionisti sono riusciti a raccogliere. Le scissioni del resto mettono in discussione non questo o quell’aspetto politico o programmatico, ma la stessa ragion d’essere del PD, che non è genericamente un partito riformista, ma la “casa comune dei riformisti”, come ebbe a definirla Romano Prodi. Questa casa comune è il partito che non c’era nella Prima Repubblica, una lunga stagione segnata da tanti riformismi e poche riforme, perché i riformisti erano divisi e quindi minoritari. L’Italia ha pagato un prezzo altissimo, tradotto in numeri nel nostro gigantesco debito pubblico, per questa anomalia politica. Il PD è nato per questo, per far diventare il riformismo maggioritario, attraverso la fondazione di un grande partito, per una volta nato da una convergenza e non da una scissione. Naturalmente, come tutti i processi storici, anche l’unità politica dei riformisti e la sua vocazione maggioritaria conoscono alti e bassi. Ma con l’unità dei riformisti tutto è possibile, con la loro divisione tutto è perduto.

Guardiamo ai primi movimenti renziani. Sappiamo che tra le caratteristiche di Renzi c’è la spregiudicatezza e la velocità. Che, a mio modo di vedere, in questa fase aumenteranno ancora di più… E questo porterà il governo a ballare. Insomma tra

DI MAIO E RENZI, pur avendo obiettivi diversi, sarà una “bella” gara a giocare il ruolo che aveva Salvini nel precedente governo.. È così Tonini?

Non lo so. Spero di no. Ma quel che so è che i piccoli partiti, tanto più se dall’incerta identità politica al di là della fedeltà al leader di turno, sono costretti a diventare un problema per le coalizioni di cui fanno parte, se non vogliono sparire dalla scena politica e mediatica. Tutti i giorni devono trovare e, se necessario, inventare, un motivo di distinzione dagli altri, in particolare dai più vicini, se non vogliono sparire dai titoli dei giornali, dall’apertura dei tg o dai like dei social. Spero che stavolta questo non avvenga, ma la politica, come l’economia, ha le sue leggi, che spesso scavalcano e travolgono la stessa volontà dei leader.

Il PD soffre questo movimentismo. Come dovrebbe rispondere? Non vede un Zingaretti lento?

Penso che il PD debba rilanciare la sua vocazione maggioritaria nel Paese, attraverso l’apertura a tutte le componenti del riformismo italiano. Guai se il PD cedesse alla tentazione di assecondare gli scissionisti riproponendo la cosiddetta “divisione del lavoro” tra centro e sinistra. Una teoria (e una pratica) sbagliata in via di principio, perché separa artificiosamente le due facce del riformismo: la lotta per l’uguaglianza, che per Bobbio era la definizione migliore della sinistra; e la cultura di governo, il realismo delle compatibilità e della gradualità, che sono la declinazione nobile e non trasformistica del centro. Il riformismo è la sintesi di queste due componenti. Senza la sintesi non c’è il riformismo, ma tuttalpiù un cartello elettorale, fondato sull’idea di marciare divisi per colpire uniti: una strategia apparentemente realistica e che invece ha sempre portato al centrosinistra solo sconfitte. Nel 1994 la divisione tra Occhetto e Segni portò alla vittoria di Berlusconi; nel 2006 la lista dell’Ulivo alla Camera prese molti più voti della somma delle liste di centrosinistra al Senato, con le conseguenze che conosciamo sulla tenuta del governo Prodi; nel 2013 la “non vittoria” di Bersani fu anche la conseguenza della “divisione del lavoro” con Monti.

Anche grazie a Renzi, il PD è ora al governo insieme al Movimento Cinquestelle. Pensa che questa alleanza possa diventare strategica? Vede il pericolo di una “grillizzazione” del PD?

Il consenso generale nel PD alla decisione di dar vita ad un governo col M5S priva la scissione di una convincente motivazione politica. Non si può condividere una decisione così impegnativa e al tempo stesso sostenere che siano esaurite le motivazioni profonde dello stare insieme. Comunque la si giri, non sta in piedi. Per venire alla sua domanda, io penso che o l’alleanza saprà diventare strategica, o finirà per dimostrarsi velleitaria. A ben guardare, la potenzialità strategica dell’alleanza si può intravedere già nelle motivazioni dell’accordo: dopo la bocciatura da parte degli elettori, alle politiche del 2018, ma prima ancora al referendum del 2016, del nostro riformismo, e dopo il fallimento dell’alleanza tra i due populismi nel governo giallo-verde, il governo giallo-rosso nasce sul compromesso tra riformisti e populisti. Questo compromesso non può basarsi solo sulla comune avversione alla destra radicale di Salvini, ma deve esplicitare una ragione positiva e propositiva. Riflettendo sull’atto di nascita di questo accordo, il voto comune a sostegno della nuova Commissione europea, presieduta da Ursula von der Leyen, la ragione positiva e propositiva dell’intesa a me piace definirla “europeismo popolare”. Solo se riusciranno insieme a porre le basi di un nuovo europeismo, un europeismo che si dimostri, agli occhi degli italiani, una risorsa imprescindibile e non solo un vincolo incomprensibile, PD e M5S usciranno vincitori da questa difficilissima impresa. Altrimenti avranno solo ritardato la vittoria della destra.

Ultima domanda: Lei è stato Presidente della commissione bilancio del Senato, quindi di manovre finanziarie se ne intende. Ora quello che emerge è che è difficilissimo far quadrare i conti… Ha qualche consiglio da dare ai suoi amici romani?

La verità è che a Roma i conti non possono tornare senza un cambiamento strategico a Bruxelles. A Roma l’unico modo di far tornare i conti è il “sentiero stretto” teorizzato e praticato nella scorsa legislatura dal ministro Padoan: tenere basso lo spread e fare avanzo primario nella misura necessaria a rallentare e via via arrestare l’aumento del debito senza soffocare la crescita. Il problema è che questa nostra strategia, che io stesso ho condiviso nel ricoprire il ruolo che lei ha ricordato, è stata clamorosamente bocciata dagli elettori, che hanno dato alle forze populiste e antieuropeiste i due terzi dei consensi. E d’altra parte, queste stesse forze non hanno potuto trasformare  l’impressionante consenso elettorale raccolto, in una credibile e praticabile strategia di governo e, in particolare, di politica economica. Giunti sulla soglia dell’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Unione, per fortuna hanno esitato e si sono fermati, prima di portare il Paese al disastro e l’Europa in una crisi forse peggiore della Brexit. Da questo stallo si può uscire solo con una mossa di Bruxelles. Serve una svolta espansiva di politica fiscale europea, che si affianchi alla politica monetaria della Bce: una politica fiscale che non si limiti a concedere più flessibilità nell’applicazione del patto di stabilità, ma si spinga fino a dotare l’Eurozona di un propria capacità di bilancio, finalizzata a sostenere la crescita attraverso un ambizioso programma “federale” di investimenti, in infrastrutture materiali e immateriali. In un contesto di crescita, deficit e debito degli Stati nazionali farebbero molto meno paura e sarebbero contrastabili in modo efficace con misure sostenibili sul piano sociale e politico. La Francia di Macron è da anni su questa posizione, che sta gradualmente conquistando consensi anche in Germania. Col governo giallo-rosso e la nomina di Paolo Gentiloni nella Commissione europea, anche l’Italia si è posta su questa linea. Naturalmente ci vorrà del tempo prima che questo nuovo quadro europeo possa imporsi e produrre l’auspicata quadratura del cerchio per i conti pubblici italiani. La manovra di  bilancio di quest’anno è dunque inevitabilmente una manovra di transizione, che sarebbe bene non sovraccaricare di aspettative. Questo è anche il consiglio (non richiesto e non necessario) che mi permetterei di proporre al governo: non enfatizzare la portata della manovra in corso e piuttosto esplicitare, spiegare, comunicare agli italiani la strategia di medio periodo, l’unica che può portare l’Italia fuori dai guai.

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