In questi due mesi, oltre di legge di bilancio, il premier Conte e il Ministro Gualtieri hanno parlato molto di green new deal. L’orizzonte tracciato è quello giusto, ma per dare un futuro alla nostra economia bisogna che anzitutto migliori la gestione delle crisi di impresa. Sono oltre 150, infatti, i tavoli di crisi aperti al Ministero dello sviluppo economico che, da tempo, non trovano soluzione. E dietro le emergenze più note – Whirlpool, Alitalia e la ex Ilva per dirne alcune – c’è un universo di aziende da salvare. Ne parliamo con Giuseppe Sabella, direttore di Think-industry 4.0 ed esperto di relazioni industriali.

(foto Ansa)
Sabella, ci dice qualcosa su caratteristiche e proporzioni di questo fenomeno sempre più grande e sempre meno controllato dal governo?
Credo si tratti dell’aspetto più debole di questa legislatura. Il Ministero dello sviluppo economico è gestito dal M5s sin dall’inizio. È cambiato il Ministro – prima Luigi Di Maio (governo Conte I), ora Stefano Patuanelli (governo Conte II) – ma la musica è sempre la stessa: le crisi d’impresa non trovano risposte. Stiamo parlando di un fenomeno che coinvolge direttamente 200.000 lavoratori e indirettamente 70.000 addetti dell’indotto. Inoltre va monitorato con attenzione il settore auto, mercato in forte contrazione. Soltanto in Piemonte, la produzione dell’auto è crollata del 48% e la multinazionale tedesca Mahle sta chiudendo due stabilimenti: ciò significa 20.000 posti di lavoro a rischio sui 58.000 del settore auto nella regione nord-occidentale.
Parliamo di qualche caso…
Rispetto a quelli più noti, Whirlpool è il caso in cui più emerge il rapporto patologico che c’è tra un investitore e il nostro sistema paese. Non può essere, infatti, che ci troviamo oggi ad assistere al crollo di una situazione figlia di un accordo che ha un anno di vita e che si era chiuso con la soddisfazione di tutti. Evidentemente, vi sono investitori che non si sentono garantiti dal nostro sistema e che, tuttavia, provano ad investire, fanno un tentativo, per poi magari scappare a gambe levate alle prime difficoltà venendo meno agli impegni che hanno preso e tradendo la fiducia che è stata data loro sottoforma, anche, di incentivi economici al loro investimento.
Alitalia, ancora una volta a un passo dal baratro, è certamente un caso diverso. Qual è la situazione della nostra compagnia di bandiera?
Ma è possibile che ogni anno ci troviamo a dover salvare la compagnia? Negli ultimi 10 anni, Alitalia ci è costata 3 miliardi. Chi conosce il caso sa bene che il problema è l’assenza di una prospettiva industriale e, quindi, di mercato. Alitalia produce solo debiti sulle tratte su cui viaggia il suo business: dal 2009 è inspiegabilmente iniziato il disimpegno dal settore più remunerativo, il lungo raggio, mentre in tutti i Paesi europei i vettori tradizionali lo potenziavano. Un fallimento annunciato.
E cosa dire della ex Ilva ora Arcelor Mittal?
Mettiamoci nei panni di un investitore il cui piano di rilancio della ex Ilva è di circa 4 miliardi di euro. Un Paese come l’Italia, che resta la seconda potenza manifatturiera d’Europa e tra le economie più avanzate del mondo, può non offrire garanzie a chi investe? E continuare a cambiare il quadro regolatorio come nel caso di Arcelor Mittal? Ricordiamo che, in virtù di un accordo M5s-Pd, il cosiddetto scudo penale è stato stralciato dal decreto salva imprese, dopo che era stato abolito dal Governo M5s-Lega e poi reinserito in uno degli ultimi provvedimenti dell’esecutivo giallo-verde con vincoli precisi al rispetto del Piano ambientale. Tutto in virtù di un regolamento di conti interno alla politica.
Al di là della politica, non è certamente un buon momento per l’industria. Cosa possiamo dire sull’andamento generale della nostra manifattura?
L’ultima rilevazione di Istat di qualche settimana fa si riferisce al mese di agosto in cui si è registrata una lieve crescita mensile (+0,3%) per la produzione industriale che però su base annua ha incassato il sesto calo consecutivo (-1,8%). In forte contrazione il settore tessile e i prodotti in metallo, bene farmaceutica ed alimentari. Vi è senza dubbio un andamento negativo del mercato a livello globale ma resta deficitaria la nostra capacità di fronteggiare la crisi. E, nel medio termine, potremmo accorgerci di aver perso terreno rispetto alle altre economie avanzate.
Quali sono i fattori che rendono alcuni sistemi più capaci di fronteggiare la crisi rispetto ad altri?
La crisi si affronta anzitutto dentro le aziende, dove la capacità di imprenditori e lavoratori di non cedere alla disgregazione è fondamentale. Poi vi è naturalmente il supporto che può arrivare dalle istituzioni. In questo senso, il Mise è un attore fondamentale che però, oggi, si ritrova svuotato di quell’unità di crisi – guidata dal dott. Castano – che Di Maio ha inspiegabilmente soppresso. Vi sono, infine, veri e propri fattori di sistema: se, per esempio, andiamo a vedere cosa è successo negli anni più duri della crisi economica (2008-2014), scopriamo che i paesi che si sono dimostrati più capaci di reagire sono queli che più investono nel capitale umano e sociale, e offrono quindi posti di lavoro di elevata qualità oltre a un efficace sistema di protezione sociale. Inoltre, l’impatto negativo della recessione sull’occupazione e sui redditi è stato più contenuto nei paesi con mercati del lavoro più aperti e meno segmentati – cioè dove c’è più capacità di favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro – e dove erano maggiori gli investimenti nella formazione permanente.
Proviamo a contestualizzare questo discorso…
Non è da trascurare il fenomeno dei working poor, ma mentre in Germania i posti di lavoro sono aumentati di 1,8 milioni e in GB di 900mila, in Italia perdevamo 1,2 milioni di posizioni lavorative. In Europa, solo la Spagna ha fatto peggio (-3,4 milioni). Dopo l’Italia, la Grecia ne ha persi un milione su una popolazione complessiva, però, molto più piccola. Quindi, o si è attrezzati per fronteggiare la crisi a livello sistemico o si perde terreno. E, come abbiamo visto, noi non lo siamo.
Qual è, quindi, una possibile previsione per la nostra economia?
Come abbiamo appena detto, il nostro sistema è debole nel momento in cui si trova a difendersi dall’urto di forti ondate recessive. In questo momento, sono molti gli osservatori anche autorevoli che parlano di una nuova crisi in arrivo come quella del 2008. Se così fosse, torneremo a soffrire. Auguriamoci tuttavia che funzioni il Quantitative Easing che Mario Draghi ha lasciato in eredità a Christine Lagarde: sono 20 miliardi di euro che ogni mese sosterranno l’economia europea.
E il green new deal?
Il green new deal è qualcosa che è già in atto in quella parte di impresa che vive proiettata nel futuro e nell’innovazione. Si tratta di portarlo a sistema: questa è la principale sfida del futuro. E, in questo, le istituzioni hanno un compito fondamentale.