Sono passati vent’anni dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Cosa resta del berlusconismo? Qual è la sua eredità? Ne parliamo con Marco Travaglio, vice direttore del “Fatto Quotidiano”. Continua a leggere
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Il “Renzi d’attacco”. Intervista a Giorgio Tonini (PD)
Il Pd dopo le dimissioni di Cuperlo dalla carica di Presidente dell’assemblea vive giorni turbolenti. Ne parliamo con il senatore Giorgio Tonini, vicepresidente del Gruppo dei senatori del Pd a Palazzo Madama.
Senatore Tonini, la prendiamo un po’ alla larga: Matteo Renzi usa carisma e spregiudicatezza per raggiugere gli obiettivi politici. Tra gli osservatori politici si parla di Lui come di un “decisionista” che ha tanta “fame” (addirittura qualcuno lo ha paragonato, secondo me erroneamente, a Craxi). La convince questa modalità renziana? Il Pd, scosso dalle dimissioni del presidente Cuperlo, rischia una scissione?
Non credo, Cuperlo per primo ha escluso qualunque ipotesi di scissione. Certo la vittoria di Renzi, la sua conquista del PD è stata un fatto rivoluzionario, che non si può pensare non produca contraccolpi, anche nel tempo. Siamo in presenza di cambiamenti “epocali”, che stanno facendo mancare la terra sotto i piedi a molti, nel PD e non solo nel PD. Intanto, Renzi è il primo segretario del maggiore partito della sinistra italiana che non viene dal Pci. Dopo Veltroni, Franceschini è stato segretario reggente per pochi mesi, poi fu eletto Bersani. Renzi ha sfidato la nomenclatura rossa e le ha portato via, in una competizione democratica, la sua stessa base. Fu così nel 2009, alle primarie di Firenze. Ma ora è avvenuto su scala nazionale. Il bambino ha mangiato i comunisti, ha detto qualcuno. È possibile che questo dato segni una cesura storica, una pagina voltata per sempre: non siamo più nel Novecento politico, il secolo delle grandi ideologie, siamo entrati appieno nell’epoca dei partiti identificati da un nocciolo essenziale di valori e poi aperti nella ricerca, sempre precaria, delle modalità di volta in volta migliori per affermarli. È comprensibile che questa svolta provochi un certo stordimento in quanti hanno sempre considerato il partito come la loro “ditta”, la ditta di famiglia, passata di padre in figlio. Così come è normale che Renzi si comporti da leader occidentale del nostro tempo – giovane, coraggioso, carismatico, decisionista – e non più da gran sacerdote dell’esoterica arte della mediazione politica classica.
Che cosa ha pensato quando nella Conferenza stampa di sabato scorso e nella direzione di ieri, parlando di Berlusconi , ha affermato dapprima “profonda sintonia” e poi “gratitudine” al Cavaliere per i risultati dell’accordo? Il PD abbandona l’antiberlusconismo? Non le pare troppo questo?
L’antiberlusconismo è stato una forma di subalternità al berlusconismo, un modo per parlare di sé in negativo, per differenza rispetto all’avversario, piuttosto che in positivo, per quel che si è capaci di fare per il paese. Il PD si sta liberando dell’antiberlusconismo. E il voto per la decadenza di Berlusconi dal Senato è stato un passaggio chiave in questa direzione, perché ha smentito clamorosamente le teorie complottiste per cui qualunque dialogo tra avversari non può che avere alla base uno scambio torbido. Del resto, questa uscita dall’antiberlusconismo subalterno il PD la sta tentando da anni. Basti pensare a come il fondatore del partito, Walter Veltroni, volle impostare la sua campagna elettorale nel 2008. Poi la concorrenza di Di Pietro ha riportato il PD sulle orme più tranquillizzanti dell’antiberlusconismo, ma questo non è servito affatto a farci riprendere i voti perduti. E Di Pietro è scomparso dal Parlamento. Qualche anno fa Lakoff raccomandava ai nostri fratelli maggiori, i Democratici americani, di “non pensare all’elefante”, cioè al Partito repubblicano, di parlare agli elettori delle proprie proposte e non di quelle altrui. Renzi sta applicando alla lettera questo schema. Anche perché pensa, giustamente, che dal dialogo con Berlusconi, in termini politici ed elettorali, a guadagnarci di più possa essere proprio il PD, che non vincerà mai se non riuscirà a conquistare la fiducia di una parte degli elettori che negli anni scorsi hanno votato per Berlusconi.
Veniamo all’accordo. L’Italicum, che qualcuno ha definito come il “Porcellum di serie B”, presenta indubbiamente, delle innovazioni importanti (vedi il ballottaggio nazionale tra le coalizioni), i collegi piccoli. C’è il rischio, però, che il quorum per raggiungere il premio di maggioranza sia troppo basso. Poi c’è il nodo della mancanza delle preferenze. Non c’è il rischio di non vedere rispettate le motivazioni della Corte Costituzionale?
Non sono un costituzionalista, ma direi di no, anche se certamente siamo al limite. L’Italicum rispetta sia il principio della soglia di accesso al premio di maggioranza, sia quello della riconoscibilità dei candidati. Una soglia di accesso al premio al 40 per cento è indubbiamente meglio, per stare dentro la sentenza della Corte, di una al 35. Ma Renzi è riuscito, con la soglia al 35, a far dire di si a Berlusconi al ballottaggio sotto quella soglia. Se dal confronto parlamentare emergerà la disponibilità di tutti ad arrivare al 40 sarà certamente un fatto positivo. Ma in caso contrario, sarebbe una follia far cadere l’accordo e riportare la nave delle riforme in alto mare. Quanto alle preferenze, siamo passati dalla loro demonizzazione alla loro esaltazione acritica. Al contrario di Renzi, io sono sempre stato e resto contrario alle preferenze, che sovrappongono la competizione interna al partito a quella esterna. Non è un caso che in nessun grande paese europeo si vota alle politiche con le preferenze. In Francia e Inghilterra ci sono i collegi uninominali, in Germania i collegi uninominali e le liste corte bloccate, in Spagna le liste corte bloccate. Le preferenze c’è l’ha solo la Grecia… Io avrei preferito i collegi uninominali (del resto, sono l’unico parlamentare PD eletto con questo sistema), ma le liste corte bloccate sono il second best, non a caso ammesso dalla Corte. Dopodiché, anche qui, se si trova l’accordo di tutti sulle preferenze nelle piccole circoscrizioni, non sarà il PD ad opporsi. Basta che non mitizziamo questo sistema: non dimentichiamo che è con le preferenze nelle liste corte che si eleggono i consiglieri regionali, non mi pare con grande vantaggio per la credibilità della politica.
L’Italicum reggerà la navigazione parlamentare? La minoranza del PD ha promesso battaglia…
Renzi ha giustamente richiamato tutti i parlamentari democratici alla regola aurea senza la quale nessun partito può vivere: massima libertà di confronto nel partito e libertà di esprimere pubblicamente le posizioni più diverse. Ma poi, una volta decisa a maggioranza la posizione comune, è necessaria una disciplina assoluta nel voto in Parlamento. Altrimenti non c’è più il partito. Io sono stato quasi sempre in minoranza, prima nei Ds e poi nel PD, e mi sono sempre attenuto a questo criterio. E penso che nessun parlamentare del PD voglia ripetere, sulla legge elettorale, l’esperienza dei 101 franchi tiratori su Prodi.
Veniamo al rapporto Renzi-Letta. I due dopo le Primarie hanno vissuto giorni di grande tensione. E la sensazione, nonostante le “rassicurazioni” di Renzi, che i rapporti continueranno. Per Lei?
Renzi avrà tanti difetti, ma non quello di non parlare chiaro e non dire a viso aperto quello che pensa. Quindi, se Renzi dice che non vuole far cadere il governo, ma spingerlo a fare di più e meglio, penso che si possa e si debba prenderlo in parola. Del resto, l’accordo sulle riforme, che affianca alla nuova legge elettorale le modifiche costituzionali sul ruolo del Senato e il Titolo V, che hanno bisogno di almeno un anno per vedere la luce, è la prova che il segretario del PD non sta lavorando per interrompere la legislatura, ma per renderla produttiva. E lo stesso coinvolgimento di Berlusconi è un risultato importante. Non a caso, dopo l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza, le ambizioni riformiste della coalizione che sostiene il governo Letta si erano molto ridimensionate, mentre ora possono tornare significative. E con loro, l’orizzonte di durata della legislatura e del governo torna ad allungarsi. Ora tocca a Letta avanzare una proposta per rilanciare il profilo programmatico e l’efficacia operativa dell’esecutivo. Il PD vuole solo che il governo recuperi la fiducia degli italiani. E per farlo, deve trasmettere ai cittadini il senso di una svolta e di un’accelerazione.
LA REPUBBLICA DEL MAIALE
Sessant’anni di storia d’Italia tra scandali politici e ossessioni culinarie
Una controstoria italiana, dal varo della Costituzione alla fine della Seconda Repubblica. Una lettura strabiliante, questo libro di Roberta Corradin per Chiarelettere (LA REPUBBLICA DEL MAIALE. Sessant’anni di storia d’Italia tra scandali politici e ossessioni culinarie, pagg. 272, €12,90), una scrittura effervescente, gustosissima, strabordante di aneddoti, personaggi, fatti, mode e tic. Una cavalcata di decennio in decennio, dalla fine della fame del dopoguerra alla scoperta del cibo sano e leggero complice la crisi economica di oggi, su e giù sull’ottovolante Italia che ci ha regalato emozioni a non finire tra alta cucina e bassa politica. Lo sguardo obliquo di una affermata critica gastronomica e appassionata cittadina, attenta alle ideologie, di tutti i tipi, ci regala un’Italia mai vista così, un po’ a tavola, in casa e al ristorante, e un po’ tra i banchi del parlamento e al supermercato. Dal primo Autogrill all’ultima ossessione culinaria, ecco il ritratto sorprendente dell’italiano medio. Di come siamo e da dove veniamo. Comprese le ricette che hanno fatto epoca, sarebbe un peccato dimenticarle.
Chi è Roberta Corradin: è nata a Susa nel 1964. Si è diplomata al liceo d’Azeglio a Torino, ha iniziato tre tesi in lettere classiche e non ne ha finita mai nessuna, e nel 1989 ha cominciato a lavorare nei fumetti: «Lupo Alberto», «Cattivik», «Sturmtruppen», «Blue», e l’immancabile «Linus». Nel 1992 diventa lavoratrice anomala ante litteram, e da allora, per circa un lustro, scrive di pseudopsicologia da bar e da parrucchiere per svariate testate femminili. Nel 1995 esce il suo primo libro, Ho fatto un pan pepato… ricette di cucina emotiva (Zelig). I critici la ignorano, i gastronomi la chiamano a scrivere di cucina nelle loro riviste.
In seguito pubblica Un attimo, sono nuda, una storia umoristica misogina (Piemme); Le cuoche che volevo diventare (Einaudi), Tradizione Gusto Passione (con Paola Rancati, Silvana Editoriale) e scrive di viaggi e di cucina per testate tra cui «l’Espresso», «Gambero Rosso», «D La Repubblica delle donne», e altre. Traduce narrativa e saggistica dal francese e dall’inglese.
Ha risolto un decennio di nomadismo occidentale tra New York, Parigi, Roma e la Sicilia sudorientale a favore di quest’ultima, dove insieme al marito porta avanti un progetto di fattoria perma culturale e gestisce un ristorante di mare a Donna lucata.
Pubblichiamo, per gentile concessione Dell’editore, alcuni stralci del libro:
“Sarà stata l’emozione e l’incredulità di trovarsi alle urne per le prime elezioni libere dal 1924, ma dopo il 18 giugno 1946, data in cui la Corte di cassazione sancisce l’esito delle votazioni, ci si mette un po’ a realizzare che siamo diventati una repubblica.
I padri fondatori si accingono al lavoro per redigere la Costituzione. Le riunioni informali di alcuni membri della Costituente si svolgono in via della Chiesa Nuova, in un appartamento di proprietà di due sorelle, le signorine Portoghesi. Dato che la convivialità segna la cultura del Sud Europa dai tempi in cui Ulisse vagava per il Mediterraneo, le sorelle Portoghesi si improvvisano locandiere e cuoche e offrono quel che ci si può permettere nei tempi avari dell’immediato dopoguerra: le vitamine delle verdure, gli amidi delle patate bollite, proteine poche e povere, per lo più da uova e latte.
Un giorno, Vittorino Veronese, all’epoca direttore delle Acli, porta in dono un maialino ripieno. L’abrogazione della monarchia ha svuotato di senso i titoli nobiliari, ma la nobiltà delle proteine suine esercita il suo porco fascino, e il maialino di Veronese suscita unanimi consensi. L’insieme degli ospiti e frequentatori di casa Portoghesi, tra cui figurano svariati padri fondatori della Repubblica, si ribattezza «Comunità del porcellino». «Porco!» è anche l’epiteto con cui l’ex partigiana nonché membro della Costituente Laura Bianchini, ospite fissa della casa di via della Chiesa Nuova, liquida sommariamente ogni interlocutore che non dia soddisfazione alle sue argomentazioni dialettiche.
Anche Amintore Fanfani, frequentatore assiduo di casa Portoghesi, si presenta con un regalo destinato a diventare il simbolo della comunità: un tagliere di legno a forma di porcello su cui ha disegnato la caricatura di tutti i membri, in primo piano l’ex partigiana Laura Bianchini che grida «Porco!».(1)
Negli anni a venire, qualcuno definirà l’Italia «la Repubblica delle banane», ma la Comunità del porcellino è la prova storica che siamo una repubblica gastronomicamente (e non solo) fondata sul maiale.
Il nome della «Comunità del porcellino» si innesta sulla fascinazione secolare del maiale nella cultura contadina, che all’inizio degli anni Cinquanta è ancora la cultura dominante. Ogni famiglia di contadini che si rispetti alleva almeno un maiale, a cui fa la festa entro l’inverno, perché il tempo del maiale è breve (in mancanza di celle frigorifere) e finisce il Martedì grasso. Dalla Val Badia alla Calabria, il rito dell’uccisione del maiale, con le grandi mangiate che vi sono connesse per finire tutto quanto prima che vada a male, è l’evento gastronomico dell’inverno. Almeno, prima che si verifichi l’incantesimo degli anni Cinquanta.
Molti italiani si addormentano il 31 dicembre 1949 in una masseria (parola che all’epoca non include il significato accessorio di b&b squisitamente restaurato con piscina, idromassaggio, aria condizionata e colazione con yogurt e müsli) e si svegliano il 31 dicembre 1959 in un bilocale malcostruito da caste emergenti di palazzinari nelle periferie di Torino o Milano. La differenza si vede dal mattino: sveglia alle 4 in masseria per mungere le mucche, sveglia alle 4 per andare in fabbrica nel Nord industriale. Ripercussioni alimentari sulla colazione: latte appena munto in masseria, latte di mucche ignote variamente scremato nella periferia metropolitana. In dieci anni, l’Italia si trasforma da rurale e feudale (al Sud) in industriale e consumista (al Nord). La sera ci si riunisce a vedere la televisione nel salotto dei leader d’opinione che l’hanno già acquistata, la padrona di casa fa la torta: per lo più, un ciambellone con uova, zucchero, farina, latte, lievito e scorza di limone – per renderlo friabile si ricorre al grasso che c’è a disposizione in casa, che sia burro, olio, o sugna, successivamente cro- cefissa sull’altare del salutismo. Il boom delle automobili ha per indotto la voglia di andare a provare ristoranti fuori porta – in Francia è così che nacque la Guida Michelin nel 1900,(2) per far consumare pneumatici alla gente facendo leva sulla golosità: ça vaut le détour, chiosa il recensore appagato, vale il viaggio. Diffusa sempre più capillarmente, la televisione (3) porta nelle case la pubblicità del cibo industriale e l’idea di una modernità che passa anche e soprattutto per l’affrancamento dall’agricoltura, ovvero dalle correlate fatiche e incertezze. Sarà sufficiente un altro decennio per demonizzare il latte appena munto, veicolo di «terrore» batterico; ma per i «corsi e ricorsi», nel giro di un ulteriore trentennio il demonio sarà la pastorizzazione, e i gastronomi riabiliteranno il latte fresco e le sue intonse proprietà riverberate nei formaggi a latte crudo. La vita è fatta a scale, c’è chi scende e c’è chi sale… anche sugli scaffali di cucina e su quelli dei supermercati.
Alla fine degli anni Cinquanta, gli italiani non sono solo baciati dall’incantesimo dell’industrializzazione nell’imminenza del boom economico che sta per elettrizzarli. Sono anche provati da una serie di scandali di malgoverno a cui si sono dimostrati resistenti (faranno la fine delle mosche col Ddt: veleni sempre più forti per mosche sempre più inattaccabili). Tuttavia, data la nostra innata capacità di far finire sempre tutto a tarallucci e vino, il duplice primato degli anni Cinquanta non è politico ma gastronomico: l’apertura del primo supermercato italiano nel 1957 e l’inaugurazione del primo Autogrill sull’Autostrada del Sole, il 21 dicembre 1959.(4)
Sfogliando a ritroso gli annali di una Repubblica affondata negli scandali sessuali – a cominciare dal 1953 con l’omicidio di Wilma Montesi (5) – si constata che il lato suino della natura umana, dalla Prima alla Seconda repubblica, si celebra di decennio in decennio in un’iperbole crescente di maialate, di cui solo le più caste riguardano la tavola (la maggioranza è di tipo sessuo-politico, con uno schema che si ripete: in realtà non frega niente a nessuno se il tal politico ha l’amante o qualche vizietto, ma nel momento in cui occorre un ricambio, si trova una foto che ritrae, ad esempio, negli anni Cinquanta, il democristiano Mario Scelba che prende il gelato con l’amante in via Veneto, e si obietta sul gusto del gelato).
Possiamo dunque affermare a ragion storica veduta che la nostra è la Repubblica del maiale. Declinata in tutte le connotazioni possibili: metaforica e letterale, gastronomica e morale”.
Note
1 Entrambi gli episodi sono raccontati da Telemaco Portoghesi Tuzi e Grazia Tuzi nel libro Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della Comunità del porcellino, Il saggiatore, Milano 2010.
2 La prima edizione della Guida Michelin dei ristoranti italiani vede la luce nel 1956. 3 Nel 1954 gli abbonati sono 90.000, oltre 600.000 nel ’57, più di due milioni nel ’60 (si veda Simona Colarizi, Storia del Novecento italiano, Bur, Milano 2000, p. 372 segg.).
3 Nel 1954 gli abbonati sono 90.000, oltre 600.000 nel ’57, più di due milioni nel ’60 (si veda Simona Colarizi, Storia del Novecento italiano, Bur, Milano 2000, p. 372 segg.).
4 Un modello facsimile di supermercato era stato allestito nel quartiere romano dell’Eur nel 1956 a scopo dimostrativo; il primo Autogrill italiano vanta un primato anche europeo: è il primo «a ponte», a cui si accede da entrambi i sensi di marcia. A metà degli anni Sessanta, 23 Autogrill unificheranno l’offerta gastronomica sulle autostrade italiane. Si veda Lorena Carrara, Come mangiavamo, gli italiani e il cibo negli anni ’50, Academia Barilla 2006, pp. 81-82.
5 Bella ragazza romana trovata morta sulla spiaggia di Ostia. Le indagini, depistate in un primo tempo, accertarono che era deceduta in seguito a un festino organizzato da rampolli della Roma bene (tra nobiltà e politica), durante il quale agli ospiti non venivano evidentemente serviti solo maritozzi con la panna. Il caso Montesi andrebbe studiato nei libri
Legge elettorale: dal “Porcellum” al “Nicolettum”? Intervista a Michele Nicoletti (PD).
Sono settimane decisive queste per la politica italiana, non solo in vista di un possibile “rimpasto” governativo, infatti il 27 gennaio incomincerà alla Camera dei Deputati l’esame sulla riforma elettorale. Ne parliamo con l’onorevole Michele Nicoletti del PD, membro della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati.
Onorevole Nicoletti, lei, sicuramente, sarà tra i protagonisti della riforma della legge elettorale. Lo scorso mese di maggio, infatti, ha presentato un DDL. Esattamente in cosa consiste e come nasce questa sua proposta?
La proposta nasce dal desiderio di onorare un impegno assunto con i nostri elettori durante la campagna elettorale: dopo anni di tentativi falliti uno dei primi impegni di questa legislatura doveva essere quello di riformare il Porcellum. Così – in un quadro ancora molto incerto dal punto di vista politico e istituzionale – mi sono messo a lavorare seguendo un principio fondamentale e due criteri fondamentali di metodo. Il principio fondamentale è quello di rafforzare il potere dei cittadini nella scelta dei propri rappresentanti e nella scelta del Governo che il Porcellum ha di fatto reso impossibile con le liste bloccate e con un contraddittorio meccanismo di distribuzione del premio di maggioranza. I criteri di metodo sono due. Il primo: tenere presente che le istituzioni sono strettamente legate alla storia di un Paese e quindi le opere di riforma non possono essere frutto di una modellistica astratta, ma devono tenere conto dei principi ideali così come dell’umanità concreta e dunque della realtà storica, delle tradizioni di pensiero, delle forze in campo, dei costumi, della cultura politica. Questa è la lezione metodologica della migliore tradizione storico-giuridica italiana. Per capirci, quella che ha prodotto la Costituzione. Per questo mi sono messo a studiare ciò che era stato prodotto in passato a partire dalla Commissione Bozzi che per prima ha affrontato i nodi istituzionali irrisolti. Lì ho ritrovato il pensiero di tanti miei maestri universitari, in primo luogo Roberto Ruffilli, e l’idea di coniugare la pluralità del panorama politico italiano (considerata come una ricchezza) con l’esigenza della governabilità. Questo si può fare attraverso meccanismi che favoriscano il formarsi di coalizioni e dunque il formarsi di maggioranze parlamentari decise non dalle trattative tra i partiti ma dal cittadino stesso, a cui va restituito il ruolo di vero “arbitro” della democrazia o, per dirla con formula ancora più forte di Gianfranco Pasquino (che in Commissione Bozzi assieme ad altri come Nino Andreatta propose il “doppio turno di coalizione”), lo scettro del sovrano. Da queste letture e dalle riprese più recenti di quest’idea da parte di Roberto D’Alimonte è nata l’idea di innestare sulla legge esistente un doppio turno sul modello delle elezioni comunali nei Comuni sopra i 15.000 abitanti. In questo modo è possibile rispondere alla prima obiezione della Corte che ritiene inaccettabile la distorsione del rapporto tra voti/seggi con l’attuale premio di maggioranza: con il doppio turno si salvaguarda l’“uguale” peso che ogni voto deve avere in una competizione democratica. Il secondo criterio è stato quello di cercare tra i diversi modelli presentati dai partiti nelle legislature precedenti elementi di possibile condivisione, in modo da partire subito da un testo che potesse almeno in qualche punto incontrare l’interesse delle diverse forze politiche. Così abbiamo introdotto un secondo elemento importante e cioè il voto di preferenza, associato alla possibilità di votare un uomo/una donna in modo da restituire ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti e di favorire la rappresentanza di genere. Naturalmente, conoscendo le problematicità del voto di preferenza, abbiamo proposto di utilizzare circoscrizioni elettorali di piccola dimensione (come quelle delle attuali province) in cui avere in media 5 o 6 deputati così da contenere le spese della propaganda elettorale, che comunque andrebbe disciplinata con normativa più rigorosa.
Quali forze politiche lo sostengono? Cosa ne pensano i massimi dirigenti del suo partito? Matteo Renzi sembra orientato verso il “modello spagnolo”. Insomma non c’è il rischio di creare confusione? Per qualcuno sembra una mossa “anti Renzi”?
Che possa essere considerata una mossa anti-Renzi è una palese sciocchezza: in primo luogo è nata in primavera in un contesto politico completamente diverso ed è stata firmata anche da deputati a lui vicini; in secondo luogo è quella che più si avvicina al modello da lui tante volte proposto con l’immagine del “sindaco d’Italia”. Il fatto che l’abbia inclusa in una delle sue tre proposte mi sembra dimostri che Renzi non la vede affatto come ostile e oggi molti altri parlamentari del PD la condividono. Tra le altre forze politiche c’è il consenso del NCD che ha proposto di assumerla come testo base per la discussione. C’è una apertura di Scelta Civica e Per l’Italia e di forze territoriali come la SVP. E tra le forze di opposizione c’è anche una disponibilità di SEL (un collega di SEL è anche tra i firmatari). Quindi c’è una buona base di consenso, così come c’è una buona base di consenso sul ritorno al Mattarellum (meno sui suoi correttivi). E penso che a decidere alla fine sarà proprio il consenso maggiore o minore attorno a un modello.
Il suo sistema elettorale implicherebbe, per funzionare, l’abolizione del “Bicameralismo perfetto”. E senza questa riforma c’è il rischio Non vede il pericolo di possibili creazioni di maggioranze diverse?
Naturalmente questo modello funziona al meglio togliendo al Senato il voto di fiducia. In questo modo il voto degli elettori produce una chiara maggioranza alla Camera a sostegno del programma, della coalizione e del suo leader che ha vinto le elezioni. Questo però non è un elemento di debolezza della proposta, ma semmai è uno suo elemento di forza, perché si abbina perfettamente con quella prospettiva di superamento del bicameralismo perfetto che tutti dicono di voler perseguire. Dunque si proceda in parallelo: prima con l’approvazione della legge elettorale da noi proposta per dare una chiaro segnale ai cittadini che stiamo facendo sul serio, poi con la riforma del Senato, che dovendo passare per un procedimento di revisione costituzionale più lungo. Nessuno vuole le elezioni a primavera e quindi ci sono i tempi per fare e l’una e l’altra. Se per caso poi la situazione politica dovesse precipitare comunque la legge elettorale potrebbe essere utilizzata e sono convinto che con il doppio turno si produrrebbero due maggioranze omogenee in Camera e in Senato. Se si guarda bene la serie storica dei risultati elettorali negli ultimi vent’anni è stato nel 2006 che si è prodotto un risultato diverso tra Camera e Senato, ma il centrodestra perse per un soffio alla Camera per via di una dispersione di voti che con il ballottaggio non si produrrebbe. Ma ripeto la strada maestra è la riforma del Senato.
Qual è l’atteggiamento dei vari Partiti d’opposizione (in particolare Movimento 5stelle e Forza Italia)?
Movimento 5Stelle e Forza Italia dicono di non gradire il doppio turno. Secondo me sbagliano: il sindaco Pizzarotti a Parma ha potuto vincere grazie al doppio turno passando dal 19% al 60%. Se quindi vogliono andare al governo, è un sistema che può aiutare anche loro. Se invece vogliono solo una rendita di posizione in Parlamento, è una posizione legittima dal loro punto di vista, ma si chiamano fuori dal disegnare assieme un sistema capace di garantire rappresentanza e governabilità. Forza Italia dice di non volere il doppio turno perché teme di non riuscire a mobilitare il proprio elettorato al secondo turno e quindi di perdere. Francamente l’argomento mi pare debole: il centrodestra ha sempre vinto competizioni locali con il doppio turno dove ha un radicamento e candidati forti e in una competizione nazionale i voti del centrodestra tutti assieme sono davvero tanti e come si è visto nell’Italia di questi ultimi vent’anni potrebbero tranquillamente prevalere.
Quanta probabilità ha di giungere al successo il suo DDL?
Al momento è una delle possibilità in discussione e per parte mia sono molto contento di poter avere offerto alla discussione una possibilità. Penso che molto dipenda dal dialogo tra le forze politiche che Matteo Renzi ha aperto con forza in queste settimane e che mi auguro si concluda con un voto chiaro della prossima Direzione nazionale del PD il 16 gennaio. Penso prevarrà la proposta capace di raggiungere un consenso più vasto e di meglio collegarsi al resto delle riforme istituzionali che tutti vogliamo. Non sarà poi irrilevante anche la fattibilità tecnica della proposta. La nostra ha il vantaggio di avere un buon consenso di partenza all’interno della maggioranza, di coniugarsi bene con le riforme istituzionali che vogliamo (rafforzamento della democrazia parlamentare e del voto dei cittadini con designazione di un programma, di una coalizione, di un candidato premier) e di essere anche abbastanza semplice da spiegare e da applicare. Per capirci, con questo testo potremmo andare in aula il 27 gennaio rispettando ciò che abbiamo detto ai cittadini: vi daremo presto un sistema elettorale con cui poter scegliere i propri rappresentanti e con cui poter decidere che Governo vogliamo. Mi sembra un’occasione da non perdere.
Ingrao e Bettini: un dialogo sul senso della politica e dell’umano.
Un libro intenso e, data l’attuale situazione della politica, “inattuale”. Ma è proprio questa “inattualità” a renderlo prezioso. Parliamo di questo libretto controcorrente, pubblicato dall’Editore Imprimatur, dal titolo emblematico “Un sentimento tenace. Riflessioni sulla politica e sul senso dell’umano” (Imprimatur editore, pagg. 107, € 9,50). Gli autori sono due personalità storiche della sinistra italiana: Pietro Ingrao e Goffredo Bettini. Nel libro viene raccolto l’epistolario inedito, una corrispondenza che si è sviluppata lungo un arco di vent’anni, tra i due, legati da una antica amicizia.
Pietro Ingrao è il grande padre nobile della sinistra comunista italiana, l’eretico, dalla scorza dura, di quella tradizione politica. E tutta la sua militanza politica, dalla resistenza al nazifascismo fino ai primi anni ’90 – quella ufficiale come esponente del PCI – per continuare ancora come punto di riferimento per il movimento ecologista e pacifista, si è sviluppata tra “l’incanto e il disincanto” del cielo della politica. In questa sua polarità continua tenacemente adefinirsi “comunista”. Per Bettini, pur partendo dalla medesima radice comunista, si è sviluppata, e si sviluppa (con più o meno visibilità) nel PD in nome di un riformismo radicale non ideologico e per questo appassionato. Infatti la svolta di Occhetto aveva interrotto ogni dialogo tra i due amici, un rapporto di fatto risalente ai tempi dell’entrata di Bettini, a 15 anni, nella FGCI (la federazione giovanile comunista). Un rapporto tra maestro e allievo.
IL libro svela, infatti, i tanti “fili” che legano i due interlocutori. In primis il cinema (sono davvero belle le parole di Ingrao su un film di Chaplin, Monsieur Verdoux, da cui prende avvio la riflessione sulla pena di morte). Tutto il volume, però, ruota sul senso della politica nell’avventura umana e dei suoi limiti rispetto alla dismisura della vita. Scrive, infatti, Ingrao: “E’ curioso che abbia lavorato dentro le istituzioni (Ingrao è stato Presidente della Camera ndr), con la crescente , fredda coscienza che la norma è riduzione, quantificazione di fronte allo smisurato della vita. Così succede: sto dentro la misura e la rifiuto”. Questo è il riconoscimento, per Ingrao, della indispensabilità della politica. Indispensabilità che in lui nasce non da moralismi o da falsi eticismi, e in un certo senso il “dover essere” contiene un alto tasso di “astrattismo”, ma dalla “corporeità della vita” . Ingrao, insomma, entra nella resistenza antifascista perché la sua è una resistenza “antropologica” e per questo radicale: “Era una resistenza del mio essere, una difficoltà della mia vita ad adattarsi a quell’esito (cioè a una vittoria del nazismo sul mondo)” .
Per lui il punto essenziale come e dove “si difendono meglio gli umili e gli oppressi”: “Io sento penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli, o più esattamente dei più offesi. Ma la penso perché pesa a me: per così dire mi da fastidio, mi fa star male”. Anche per Bettini, di estrazione altoborghese e di famiglia repubblicana, l’approccio alla politica viene dal “prepolitico” in un certo senso : “la politica probabilmente mi è entrata nel sangue, perché l’ho sentita come il modo più diretto e concreto per rompere questo silenzio. Per dare la forza dell’espressione a chi non ce l’ha. Per lenire la sofferenza dell’indifeso e dargli lo strumento di una risposta”. La loro visione laica, che mi pare più accentuata in Bettini, conferisce alla politica uno statuto altissimo: il compito di essere “compagna esistenziale” dell’uomo (in questo entrambi sono consapevoli, però, della dismisura della vita).
Allora ecco “l’inattualità” che diventa “attualità” . Scrive Bettini: “E i politci, sensali di giornata, rinunciano alla egemonia, alla creatività necessarie per tenere insieme una comunità. Non resta che riporre una fiducia cieca e interessata nello sviluppo della tecnica e della scienza, sperando che esso sia più veloce del degrado che l’azione umana determina”. Naturalmente Bettini non è un “neopositivista”, vuole sottolineare il ritardo della politica contemporanea rispetto alle grandi questioni che investono l’uomo contemporaneo. “Oggi la politica si consuma nell’ansia del fare (…) C’è l’ambizione del potere più che l’ambizione dell’esperienza”. Dunque alla fine per Ingrao e per Bettini c’è bisogno del riscoprire la profondità della vita e della politica. E per due uomini di sinistra questo significa che la svolta per una rinnovata politica deve ripartire dalle persone: “Il nostro ‘core business’ non è la ditta, che è stata peraltro mandata in rovina, ma gli esseri umani, oggi più poveri e più soli”. Realizzare quel “sentimento tenace” per la vita delle persone, per ribaltare o almeno riequilibrare, come scrive Bettini, l’oscenità dell’ingiustizia e il rapporto tra chi sta sotto e chi sta sopra.